Perché le aziende devono diventare editori del proprio futuro

Perché le aziende devono diventare editori del proprio futuro

Viviamo in un tempo in cui i dati hanno assunto un ruolo centrale nelle strategie aziendali. Ogni organizzazione oggi misura, analizza, monitora: tassi di conversione, performance operative, soddisfazione del cliente, impatto ambientale. Tuttavia, ogni volta che incontro imprenditori o manager, mi accorgo che c’è ancora una distanza enorme tra il possedere i dati e il saperli raccontare. La verità è che i numeri, da soli, non bastano. Se non diventano parte di una narrazione, rischiano di restare muti. Ecco perché credo che le aziende, oggi più che mai, debbano imparare a essere editori del proprio futuro.

Dare voce al proprio percorso

Essere “editori” non significa costruire un’immagine artificiale di sé. Significa imparare dall'editoria la capacità di dare voce al proprio percorso, costruendo un racconto coerente che unisca fatti, emozioni e visione. I dati sono fondamentali perché rappresentano la sostanza, il reale, la prova. Ma la narrazione è ciò che dà senso a quei numeri, ciò che li collega alle persone, ai valori, alla direzione che l’organizzazione intende seguire. È come avere due linguaggi che, se usati insieme, generano significato: il linguaggio dell’evidenza e quello della visione.

Questo approccio genera un cambiamento culturale profondo. Significa passare da una comunicazione episodica a una comunicazione continua, in cui ogni innovazione, ogni progetto, ogni traguardo entra a far parte di una storia collettiva. E questa storia non va scritta solo dai vertici, ma da tutta l’organizzazione. I dipendenti, i collaboratori, i partner sono i primi narratori credibili del cambiamento. La loro voce rende il racconto autentico, umano, vicino alla realtà quotidiana.

Perché le aziende devono diventare editori del proprio futuro
Perché le aziende devono diventare editori del proprio futuro

Diventare editori del proprio futuro

Diventare editori del proprio futuro, quindi, non è un esercizio di stile. È un atto di responsabilità e di visione. Significa guardarsi dentro, riconoscere ciò che si è, ma anche avere il coraggio di immaginare ciò che si vuole diventare. In un mondo dove tutto comunica e dove la reputazione è costruita giorno per giorno, la vera innovazione sta nella capacità di unire l’analisi e l’emozione, la misura e il sogno.
Per molto tempo si è pensato che pubblicare report, trend e previsioni fosse sufficiente per costruire autorevolezza. Ma i numeri, da soli, non bastano.
È emersa con forza un’idea diversa: per incidere davvero nel dibattito su tecnologia e trasformazione, serve costruire una vera e propria “editoria d’impresa”. Un sistema narrativo continuo che non si limita a diffondere dati, ma li collega a volti, esperienze, storie. In questo modello, i report smettono di essere oggetti chiusi e diventano contenuti vivi.

La forza dei dati

Le analisi non servono più a impressionare, ma a orientare. La tecnologia non è più raccontata come astrazione, ma come esperienza reale e trasformativa. La forza del dato non sta nel dato in sé, ma nella visione che consente di costruire.
Ogni azienda ha una storia che merita di essere raccontata. Ma serve metodo, coerenza, la volontà di aprirsi. Come ogni buon editore, bisogna scegliere le parole giuste, i tempi giusti, i canali giusti. E poi bisogna saper ascoltare i propri lettori - clienti, dipendenti, comunità - perché anche loro contribuiscono a scrivere le pagine di quel racconto.

Io credo che il futuro della comunicazione d'impresa passi proprio da qui: dalla capacità di includere dati, racconti e visioni in un’unica trama.

Tecnologia e inverno demografico: verso sistemi intelligenti

Tecnologia e inverno demografico: verso sistemi intelligenti

L'inverno demografico non si combatte con bonus, ma con sistemi più intelligenti, più giusti e ben comunicati. A partire da come li immaginiamo.

L'Italia scivola sotto 1,18 figli per donna. Un dato che, come spesso accade, è stato trattato come una notizia. Ma non è una notizia. È un nuovo assetto strutturale. Un "nuovo normale" da cui non si torna indietro con un decreto o una campagna pubblicitaria.

Il tema non è più incentivare qualcosa che manca, ma ricostruire i presupposti per fare funzionare la società post digitale. E questo presuppone un nuovo clima di fiducia alimentato da sistemi diversi, servizi equi, organizzazioni pubbliche e private capaci di funzionare anche con meno persone.

La Tecnologia come aiuto concreto

E qui entra in gioco la tecnologia. Ma non come fine, né come panacea. La tecnologia può aiutare? Sì. Ma solo se smettiamo di pensarla come "soluzione".

Troppo spesso il digitale viene evocato come rimedio. Un'app per prenotare un nido, una dashboard per incrociare i dati Istat, un assistente virtuale per le mamme. Bene, anzi benissimo. Ma se il sistema sottostante resta quello del passato, la tecnologia diventa un’interfaccia moderna su una macchina inceppata.

La verità è che la tecnologia può aiutare solo se è parte di una nuova progettazione, che tenga conto del nuovo contesto. Non è difficile prevedere che il paese vincente del prossimo futuro sarà quello che saprà creare un nuovo modello basato su un mondo pubblico meno complicato e servizi personalizzati per chi lavora, studia, cresce figli o cura genitori.

Tecnologia e inverno demografico: verso sistemi intelligenti
Tecnologia e inverno demografico: verso sistemi intelligenti

Re-ingegnerizzare il modello

La sfida non è digitalizzare lo status quo, ma re-ingegnerizzare il modello di riferimento delle persone nel rapporto con lo Stato, il lavoro, la salute, la scuola. C'è un anello mancante in tutta questa catena, e si chiama comunicazione.

Se la tecnologia non viene raccontata bene, non viene capita. Se non viene capita, non viene usata. E se non viene usata, fallisce.

In un Paese che invecchia, dove ogni cittadino “perso” pesa di più sul sistema, la comunicazione non è accessoria. È infrastrutturale perché serve per ridurre l'attrito tra persone e servizi; generare fiducia, non solo consenso; trasformare strumenti in diritti vissuti; orientare comportamenti complessi, come il lavoro di cura o la pianificazione familiare.

Servono nuove regole

Ma servono parole nuove che orientano, accompagnano, abilitano. Non possiamo costruire il futuro su un presupposto che non c'è più. L'Italia non tornerà a 2,1 figli per donna, il paradigma che ha portato l’Italia tra i paesi più industrializzati del mondo fa parte del passato.

Il punto, allora, non è rincorrere un modello perduto, ma progettare sistemi adattivi, intelligenti, giusti. Che funzionino per una popolazione che cambia.

La tecnologia ci offre gli strumenti. Ma sta a noi disegnarne il senso. E comunicarlo, in modo tale che sia riconosciuto, desiderato, condiviso.

Non basta innovare. Serve anche sapere per chi stiamo innovando. E, ancora prima, saperlo dire.


Quando l’Intelligenza Artificiale diventa misurabile aumenta la credibilità

Quando l’Intelligenza Artificiale diventa misurabile aumenta la credibilità

C’è un momento nella vita di chi comunica l’innovazione, in cui l’entusiasmo rischia di somigliare alla fede. E allora può capitare di passare, nel giro di una riflessione, da San Francesco a Jeff Bezos. Il primo predicava la povertà e la verità del gesto, il secondo misura tutto: tempi, risultati, ritorni. Due estremi che raccontano bene la condizione in cui si trova oggi chi deve parlare di Intelligenza Artificiale – tra la tensione etica della trasformazione e la necessità, molto terrena, di dare conto dell’impatto sul business.

Negli ultimi mesi, l’AI è diventata la calamita di ogni discorso sull’innovazione. Attira investimenti, talento, narrativa. È una “bolla buona”, come ha detto Bezos: un ecosistema gonfio di aspettative, che può però produrre effetti positivi se impariamo a trasformarlo in impatto buono. Ma per farlo serve un cambio di prospettiva.

Serve raccontare cosa può fare l'IA

Non basta raccontare cosa può fare l’AI; serve mostrare cosa fa davvero, in che misura, e con quali benefici tangibili. Per chi si occupa di comunicazione, il punto è costruire fiducia – all’interno delle organizzazioni e all’esterno, verso clienti e stakeholder.

Significa collegare ogni progetto IA a metriche che contano davvero: efficienza, qualità, sostenibilità, valore per le persone. Dichiarare da dove partiamo, cosa intendiamo migliorare e in che orizzonte temporale.

È un approccio più sobrio, ma anche più credibile. Richiede dati raccolti in modo coerente, baseline affidabili, verifiche indipendenti e contestualizzazione dei risultati.

In altre parole, i progetti devono nascere misurabili by design.

Quando l’Intelligenza Artificiale diventa misurabile aumenta la credibilità
Quando l’Intelligenza Artificiale diventa misurabile aumenta la credibilità

La Fiducia come valuta dell'IA

La fiducia è la valuta che regge la comunicazione dell’IA. Custodirla significa raccontare anche come vengono gestiti i dati, quale ruolo mantiene il controllo umano e quanto spesso vengono aggiornate le evidenze. Non serve la perfezione, serve trasparenza. Promesse misurate, evidenze progressive, aggiornamenti chiari: è così che la “bolla buona” diventa impatto buono.

Forse non è un caso che chi si occupa di innovazione viva spesso in bilico tra idealismo e pragmatismo. Il primo ci ricorda il valore della coerenza e della misura; l’altro, l’importanza della scalabilità e della prova empirica.

Nel mezzo, c’è la sfida quotidiana di chi comunica: dare voce al progresso senza perdere il contatto con il reale. Trasformare la bolla in impatto “buono” non è un atto di fede. È un esercizio di metodo, rigore e umiltà.

Happy Innovation!


One Team: ripensare il lavoro come ecosistema integrato

One Team: ripensare il lavoro come ecosistema integrato

In un’epoca in cui i modelli organizzativi devono reinventarsi alla ricerca del postulato che definirà l’epoca post-digitale, la mia esperienza mi ha portato a preferire un approccio che chiamo “One Team”, in cui la ricerca della soluzione più efficace è ricercata attraverso l’utilizzo di un “cervello esteso”, fatto di tutte le competenze, esperienze e diversità dell’ecosistema esteso che ruotano intorno alla comunicazione, siano  risorse interne o esterne all’azienda. In questo contesto la “soluzione” nasca dalla co-creazione tra attori diversi che credono nella stessa missione del progetto.

One Team, cambiamento della Leadership

Questo richiede un cambiamento di postura perché il ruolo del leader non risiede solo nel coordinare, controllare, ottimizzare ma ancor di più connettere, ispirare, includere, sedimentare fiducia.

Il payoff del continuo reinventarsi per trovare la soluzione migliore è una macchina più intelligente, snella e reattiva.

I sistemi di intelligenza artificiale sono un alleato di questo percorso. Secondo uno studio sperimentale su 122 team aziendali, quelli supportati da intelligenza artificiale generativa hanno mostrato performance superiori del 15‑25 % rispetto a team tradizionali privi di IA integrata.

One Team: ripensare il lavoro come ecosistema integrato
One Team: ripensare il lavoro come ecosistema integrato

La IA come interlocutore strategico

Negli ultimi mesi, c’è stata un’accelerazione, l’IA non è più relegata a compito di creazione di contenuti e analisi, ma è diventata un interlocutore operativo e strategico all’interno dei team. Con l’arrivo degli Agentic, l’IA Generativa è alla base di un’orchestrazione di agenti digitali specializzati in grado di eseguire task ma anche di prendere decisioni, interagire con altri strumenti e confrontarsi con gli esseri umani che li governano.

Questo significa che l’IA è un attore attivo del modello One Team. Lavorare con gli agenti digitali comporta un’estensione della sfida: bisogna saper delegare, ascoltare e integrare anche ciò che viene da un’intelligenza non umana.

Il futuro del lavoro si sta delineando nella pratica quotidiana, per cogliere le opportunità insite nel cambiamento. La logica del One Team può creare vantaggio competitivo culturale, operativo, tecnologico.

Happy team!


La comunicazione che vale: quando i dati la riportano al centro

La comunicazione che vale: quando i dati la riportano al centro

Mi capita spesso di sentire dire che l’intelligenza artificiale sostituirà chi fa comunicazione. Ma la verità è più scomoda - e anche più interessante. L’AI sostituirà chi fa comunicazione solo se continuiamo a farla come l’abbiamo sempre fatta, appoggiandoci su modelli, KPI e metriche che appartengono a un altro tempo. Se accettiamo di restare lì, fermi, a raccontare senza leggere, a produrre contenuti senza capirne l’effetto, allora sì: verremo superati. E non sarà colpa della tecnologia.

Oggi, chi comunica ha in mano una leva potente. Ma solo se ha il coraggio di usarla in modo nuovo. La tecnologia non ci toglie spazio: ce lo restituisce. Ci offre la possibilità di essere davvero data-driven, non nel senso sterile del “misurare i risultati”, ma nel senso vivo del decidere con consapevolezza. Prima, durante, dopo. Ci permette di capire chi ascolta, cosa attiva attenzione, dove un messaggio genera fiducia, quando una parola diventa un comportamento.

La responsabilità delle scelte

In un mondo dove ogni funzione aziendale è chiamata a portare numeri, insight, ritorni misurabili, la comunicazione può scegliere se restare legata all’intuito e alla creatività non filtrata, oppure se trasformarsi in qualcosa di più: un sistema di intelligenza relazionale, capace di leggere segnali deboli, intercettare pattern, generare insight che pesano anche nei comitati dove si decide davvero.

Questo non vuol dire diventare analisti o data scientist. Vuol dire prendersi la responsabilità di scegliere cosa conta. Vuol dire guardare le metriche con spirito critico, sapere cosa va misurato e perché. Perché non tutte le visualizzazioni valgono uguale. Non tutti i contenuti generano valore. E non tutti gli impatti sono visibili a colpo d’occhio.

Penso spesso a cosa potrebbe fare oggi una funzione comunicazione con i dati giusti. Potrebbe individuare dove un messaggio viene frainteso e intervenire prima che la distorsione diventi crisi. Potrebbe leggere i trend interni che anticipano un calo di fiducia, o un’opportunità di crescita. Potrebbe collegare contenuti e comportamenti, e sapere - con dati alla mano - quali parole attivano un clic, una candidatura, un cambiamento.

La comunicazione che vale: quando i dati la riportano al centro
La comunicazione che vale: quando i dati la riportano al centro

Il contenuto e le priorità di business

Ma il punto non è più contare quanti post facciamo. È collegare ogni contenuto a una priorità di business. È poter dire: questa comunicazione ha accelerato l’adozione di un nuovo processo. Questa narrativa ha rafforzato la fiducia in un momento critico. Questo contenuto ha supportato un posizionamento chiave su un nuovo mercato. È lì che si misura il valore. Non nel “dopo”, ma nel “durante”.

Questa discussione non è nuova, è vero. Ma oggi, per la prima volta, abbiamo gli strumenti per rispondere alla domanda più importante: quale comunicazione genera, facilita o accelera una priorità strategica? I dati ci permettono di rispondere in modo oggettivo. Di trasformare la comunicazione da costo percepito a investimento tracciabile.

Bisogna costruire un sistema

Certo, non si tratta di like, reach o open rate. Non più. Si tratta di costruire un sistema che leghi contenuti a comportamenti, narrazione a fiducia, parole a decisioni. Un sistema capace di rispondere a domande nuove: questa comunicazione ha ridotto il tempo di adozione di un processo interno? Ha aiutato un cliente a capire meglio il nostro valore? Ha fatto crescere l’adesione a una trasformazione culturale?

In Accenture, ci stiamo muovendo proprio in questa direzione. Costruiamo la misurazione attorno a queste domande. Perché se non colleghi la comunicazione alle priorità del business, non stai comunicando davvero. Stai solo decorando la superficie.

Il coraggio di cambiare

E per farlo, serve anche qualcosa che non si misura: il coraggio. Il coraggio di cambiare approccio. Di uscire dalla comfort zone delle “belle parole”. Oggi, chi comunica non può limitarsi a scrivere bene o presentare con efficacia. Deve saper ascoltare i segnali, leggere i dati, interpretarli, usarli. Non per diventare tecnico. Ma per restare rilevante.

Una comunicazione capace di fare questo — di raccogliere dati, leggerli, parlare il linguaggio dell’azienda e generare impatto — non è un’utopia. È il prossimo standard. Ci arriveremo, ma solo se accettiamo una sfida culturale prima ancora che tecnologica. E se iniziamo a trattare la comunicazione per ciò che davvero è: una leva strategica. Non per raccontare cosa è successo. Ma per contribuire a farlo succedere.


Costruire fiducia intorno alla tecnologia: la sfida che parte dalla scuola

Costruire fiducia intorno alla tecnologia: la sfida che parte dalla scuola

In un’epoca in cui la tecnologia permea ogni aspetto della vita quotidiana e del lavoro, il tema centrale non è più se adottarla o meno, ma come costruire fiducia intorno ad essa. La fiducia è l’elemento che trasforma la tecnologia da semplice strumento a fattore abilitante della crescita economica, innovazione e benessere collettivo. Non si tratta soltanto di gestire i rischi, pur reali e rilevanti, che l’evoluzione digitale porta con sé.

Si tratta di cogliere le opportunità, di sviluppare una cultura diffusa che sappia accompagnare le nuove generazioni e il tessuto economico verso un utilizzo consapevole, creativo e produttivo. In questo senso, l’istruzione rappresenta il primo e più importante campo di prova, perché è lì che si forma il rapporto dei cittadini del futuro con la conoscenza e con gli strumenti per accedervi.

Rendere contemporanea la scuola

Le recenti indicazioni proposte dal ministro Valditara non sembrano cogliere questa opportunità di rendere contemporanea la nostra scuola. In epoca post digitale avviare un progetto “zero budget based”, rischia di sedimentare un approccio punitivo nei confronti della tecnologia e di non aiutare il sistema scuola di ri-guadagnare quella autorevolezza sempre più spesso messa in discussione dai dati. La logica del contenimento non aiuta a colmare la lacuna della formazione dei docenti e a realizzare programmi didattici capaci di integrare la tecnologia come risorsa.  Tanto meno fermerà l’uso degli strumenti tecnologici che continuano ad avanzare anche nel campo della formazione. Gli 8 milioni di italiani che usano quotidianamente ChatGPT già da qualche settimana stanno sperimentando l’opzione “studia e impara”. Il messaggio appare all’apertura dell'app:  un invito diretto a comprendere che il digitale non è solo intrattenimento, ma anche conoscenza, formazione, opportunità.

Costruire fiducia intorno alla tecnologia: la sfida che parte dalla scuola
Costruire fiducia intorno alla tecnologia: la sfida che parte dalla scuola

L'importanza della Fiducia

La fiducia non nasce solo dall’uso corretto della tecnologia, ma anche dal modo in cui essa viene raccontata e percepita. La comunicazione gioca un ruolo cruciale: orienta l’opinione pubblica, influenza le scelte dei cittadini, crea un immaginario collettivo che può favorire o ostacolare l’innovazione. Se la narrazione dominante dipinge il digitale come una minaccia, la reazione spontanea sarà quella della diffidenza. Al contrario, una comunicazione chiara, trasparente e inclusiva può generare consapevolezza e aprire spazi di opportunità.

Serve un nuovo linguaggio 

Per costruire fiducia serve quindi un linguaggio che sposti il senso dal rischio al beneficio, che consideri la responsabilità come fattore primario e che non sia tecnico né elitario, ma capace di raggiungere le persone là dove si trovano: a scuola, nelle aziende, sui media, sui social.

La comunicazione deve tradurre la complessità in concetti comprensibili, senza semplificazioni fuorvianti. Dovrebbe saper valorizzare il ruolo delle regole, a partire dall’AI Act, ma anche saper dare voce ai benefici concreti della tecnologia, mostrando esempi positivi di utilizzo che abbiano un impatto reale sulla vita quotidiana.

Imparare a gestire i rischi

Costruire fiducia intorno alla tecnologia, dunque, non significa ignorarne i rischi, ma imparare a gestirli con intelligenza e responsabilità. Significa preparare una società capace di integrare il digitale come parte naturale della propria identità, senza timori né entusiasmi ciechi. La scuola, le istituzioni, le imprese, le famiglie e i media sono gli alleati in questo percorso, perché solo attraverso un impegno condiviso si può trasformare la diffidenza in fiducia e la tecnologia in un bene comune.

È una sfida che non possiamo permetterci di rimandare, perché dal modo in cui oggi scegliamo di raccontare e utilizzare la tecnologia dipenderà la qualità del nostro futuro.


Il passaggio che conta: dall’attenzione alla fiducia

Il passaggio che conta: dall’attenzione alla fiducia

Viviamo in un tempo in cui anche il pesce rosso ci sta per superare. L’attenzione media umana è oggi stimata attorno agli 8,25 secondi. Otto secondi per attirare uno sguardo, convincere qualcuno a fermarsi, scegliere se proseguire o scorrere. Eppure, più che una conquista, l’attenzione assomiglia a un clic temporaneo. Un’apertura. Non un legame.

Per anni il mondo della comunicazione ha inseguito proprio questo: l’impatto. Più views, più stimoli, più rumore. Media, aziende, professionisti: tutti impegnati a non sparire, a restare visibili. Ma qualcosa sta cambiando. La soglia non è più “notarsi”. È “restare”. In un’epoca affollata di contenuti e povera di credibilità, la vera moneta è diventata un’altra: la fiducia.

Il mercato è saturo di contenuti, ma emotivamente vuoto. L’overload è ovunque: informativo, digitale, relazionale. Sempre più persone mostrano una stanchezza silenziosa verso la brillantezza di superficie, i format tutti uguali, le voci troppo perfette. Non si cercano più solo contenuti brillanti, ma luoghi dove sentirsi visti. Dove si possa credere a quello che si dice. Dove una parola, una storia, un gesto – anziché conquistare attenzione – meritino presenza.

L'attenzione è una leva preziosa

Succede qualcosa di simile nel business. L’attenzione resta una leva preziosa, certo: senza di essa, nessuna proposta viene nemmeno ascoltata. Ma se tutto si esaurisce lì, resta solo il rumore. La vera posta in gioco sembra essere un’altra: farsi scegliere, non solo notare. E la scelta nasce quasi sempre da un sentire più profondo. Ci si fida di chi appare coerente, di chi mantiene, non solo promette. L’attenzione si accende in un istante, ma la fiducia si costruisce nel tempo. Eppure è proprio quella a generare adesione, decisione, cambiamento.

Questo cambio di prospettiva riguarda anche i media, i leader, chi lavora, chi scrive, chi vende, chi guida. Siamo immersi in un ecosistema che ha esaltato per anni la visibilità, il contenuto performativo, il risultato immediato. Ma lentamente, sotto la superficie, si fa strada un’altra domanda: “Di chi posso fidarmi?”

Il passaggio che conta: dall’attenzione alla fiducia
Il passaggio che conta: dall’attenzione alla fiducia

La potenza della parola Fiducia

Fiducia non è una parola morbida. È un meccanismo potente, silenzioso. Non si può acquistare, né imporre. Si sente. È quella che ci fa tornare su una pagina, su un luogo, su una relazione. È quella che, in una riunione o in un articolo, ci fa pensare: “qui posso restare ancora un po’”.

Proprio sul fronte media ci sono case study interessanti da considerare. In un momento storico in cui la fiducia nei media ha toccato i minimi storici – solo il 36% degli americani dichiara di fidarsi completamente delle notizie (fonte: Gallup) – alcune testate hanno iniziato a cambiare rotta. Invece di inseguire i clic facili, stanno riscoprendo il valore della relazione con il lettore. È il caso di The New York Times, Wall Street Journal e NBC News, che negli ultimi anni hanno investito in strategie concrete per riconquistare credibilità.

La prima leva è stata la trasparenza. Il New York Times ha iniziato a raccontare non solo le notizie, ma anche chi le scrive. I profili dei giornalisti sono completi di informazioni su competenze e background, e vengono affiancati da contenuti extra: brevi video, Q&A su Instagram e TikTok, dietro le quinte del lavoro redazionale. Non più solo notizie, ma un patto di fiducia tra chi scrive e chi legge.

Business dei media e il valore della coerenza

Anche il Wall Street Journal ha scelto la strada del coinvolgimento diretto. I giornalisti diventano volti visibili: raccontano il processo dietro ogni inchiesta, rispondono ai dubbi dei lettori, entrano nel dialogo. Il consumo dell’informazione si fa più umano, meno passivo.

La NBC News, invece, ha puntato sulle notizie locali, quelle più vicine alle persone. Collaborando con stazioni TV territoriali, ha coperto congiuntamente emergenze ambientali, eventi pubblici e questioni sanitarie, riavvicinando i cittadini alle redazioni. L’informazione, così, torna a essere vicina, concreta, rilevante.

Infine, anche il racconto del brand ha cambiato tono. Dalla BBC a Hearst Newspapers (editore del San Francisco Chronicle e dell’Houston Chronicle), diverse realtà hanno avviato campagne editoriali che non promuovono solo il giornale, ma il ruolo stesso dell’informazione nella vita quotidiana. Contro la disinformazione, contro l’overload, in favore di una narrazione più vera.

La sfida della Comunicazione

I risultati si vedono:

  • Aumenta l’engagement organico e partecipativo.
  • Crescono gli abbonamenti da aree “non tradizionali”, come Midwest e Sud degli USA.
  • Si rafforza una nuova dinamica di fiducia: non più consumo mordi-e-fuggi, ma appartenenza e continuità.

Questi media non chiedono più solo attenzione. Chiedono tempo, e lo restituiscono con trasparenza. E il pubblico, lentamente, sta tornando.​

Forse è questo che stiamo riscoprendo: che non basta comunicare per esserci. Serve toccare. Non serve solo catturare l’attenzione: bisogna meritare il tempo.

E se l’attenzione è davvero precipitata sotto i dieci secondi, che tipo di profondità possiamo ancora offrire, costruire, lasciare?

Forse non serve rispondere subito. Ma restare con la domanda aperta, senza fretta, può già fare la differenza.


Media: il sorpasso è grazie al modello non ai dati

Media: il sorpasso è grazie al modello non ai dati

326.000 spettatori in meno in prima serata. Per la prima volta l’audience media della TV lineare scende sotto i 20 milioni. Potrebbe sembrare un dato tecnico, ma in realtà è molto di più: è un segnale di rotta.

Perché non è solo la TV a rallentare. È l’intero impianto di comunicazione tradizionale a mostrare un nuovo segno di instabilità. E con esso, il modello di business, la pubblicità, il posizionamento dei brand e persino le relazioni tra aziende e società.

Tramonta il modello della Tv tradizionale

A nostro avviso l’indebolimento della TV è l’ennesima prova di una società post-digitale difficile da inquadrare da parte degli editori. Business plan basati su media tradizionali e la centralità del palinsesto iniziano a mostrare le proprie crepe dal momento che la vita delle persone si muove su piattaforme che funzionano in logica asincrona, algoritmica, personalizzata.

Gli editori non sono i soli ad essere alle prese con i primi segnali di un futuro profondamente diverso. I consumatori stanno mettendo in crisi anche la comunicazione Corporate. Non seguono spot, claim o post confezionati a tavolino: cercano riconoscimento. Cercano contenuti che parlino di loro. Lentamente si sta passando dalla logica del broadcasting a quella del riconoscimento attivo.

Media: il sorpasso è grazie al modello non ai dati
Media: il sorpasso è grazie al modello non ai dati

Le nuove regole del gioco

Chi comunica – che sia un CEO, un brand manager o un team social – deve accettare una nuova regola del gioco: non basta più pubblicare, bisogna sintonizzarsi. Non basta più parlare, bisogna connettere. E connettere, oggi, è una forma strategica di leadership.

Ma tutto questo si inserisce in un contesto ancora più complesso: quello delle regole. I giornalisti rispondono a un ordine professionale, hanno una deontologia, un mandato pubblico. I creator no. I social non sono chiamati a garantire trasparenza, pluralismo o qualità informativa. Questa asimmetria regolatoria non è solo un dettaglio tecnico: è una frattura sistemica rilevante.

Serve un nuovo modello, per consolidare la fiducia

Il risultato? Da un lato il pubblico migra verso contenuti più autentici, più diretti, più personali ma spesso di cattiva qualità. Dall’altro, le aziende faticano a trovare la propria voce in questo rumore di fondo. E gli editori faticano sempre di più.

Serve un cambio di postura. Un ripensamento profondo dell’ecosistema e del modello di business. In gioco non sono i KPI ma la rilevanza. E, ancora più in profondità, c’è la fiducia.

Chi non comprende questo cambiamento rischia di continuare a guardare il dito, ignorando la luna. E chi pensa di poter delegare tutto a un algoritmo, rischia di perdere il contatto con la società. Il problema, allora, non sarà solo tecnologico. Sarà culturale.

Happy media!


Ascesa della Creator Economy, un modello ibrido per creare valore

Ascesa della Creator Economy, un modello ibrido per creare valore

Nel 2025, per la prima volta, i ricavi pubblicitari generati da contenuti user-generated superano quelli dei media. Una trasformazione silenziosa ma epocale: la pubblicità non passa più (solo) dai canali tradizionali, ma da persone. E da relazioni.

La cosiddetta creator economy — che secondo Statista supererà i 33 miliardi di dollari nel 2025, con un +36% su base annua — sta riscrivendo i piani media di tutti i brand. Sotto la pressione di budget più snelli e aspettative più fluide, le aziende privilegiano creator e community rispetto all’advertising.

Ma se il creator è il nuovo media, chi è l’editore? Chi è il garante? Quali sono le regole? Ogni innovazione è da guardare con favore: crea concorrenza, nuovi standard ma per creare anche qualità deve muoversi dentro un sistema di regole certo e trasparente.

Differentemente sarà sempre più difficile distinguere un’opinione basata sull’interesse da un racconto personale. La fiducia non si costruirà più attraverso la trasparenza o la reputazione, ma con l’emotività. E se questa “voce” rappresenta un brand, il rischio reputazionale è dietro l’angolo.

Ascesa della Creator Economy, un modello ibrido per creare valore
Ascesa della Creator Economy, un modello ibrido per creare valore

Abbiamo detto, non serve demonizzare il nuovo. Serve capirlo e governarlo.

Un brand responsabile potrebbe adottare una strategia “ibrida”:

  •   Co-creare, affiancando i creator come partner editoriali, dentro cornici narrative e valoriali condivise;
  •   Formare ed educare, offrendo strumenti a chi comunica il brand perché lo faccia con la massima consapevolezza e rigore;
  •    Istituire un comitato etico-editoriale interno, che supervisioni i contenuti, ne valuti il rischio, e mantenga coerenza e integrità, estendendo così le regole del giornalismo a questo nuovo settore.

Senza un sistema, il mercato perde fiducia. Senza regole, l’autenticità diventa un trucco. Senza metodo, la creator economy rischia di implodere sotto il peso delle sue stesse promesse. Il futuro della comunicazione non è una questione di reach ma di valore.

Happy influencing!


Armando Barone

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