Ogni epoca ha avuto la sua critica ai giovani. Negli anni Sessanta erano accusati di essere ribelli senza causa, negli Ottanta di pensare solo all’edonismo, nei Duemila di essere choosy e viziati. Oggi, mentre i dati ci dicono che sei giovani su dieci sarebbero pronti a trasferirsi all’estero per costruire il proprio futuro, stiano ripetendo lo stesso copione: considerarli fragili, incerti, smarriti, bisognosi di essere “accompagnati”.

Una narrativa che si ripete

È la trappola di una narrativa che si ripete uguale a se stessa e che finisce per rendere invisibile ciò che in realtà i giovani sono: il più potente motore di trasformazione che un Paese possa avere.

I numeri raccolti da Ipsos sono chiari: negli ultimi tredici anni 550mila giovani hanno lasciato l’Italia, mentre solo 173mila sono rientrati.

Le ragioni principali non sono misteriose: opportunità lavorative (20%) e qualità della vita (16%). È un messaggio forte, che non può essere letto solo come una fuga, ma come un indicatore del gap tra ciò che i giovani cercano e ciò che il Paese offre. E qui la comunicazione gioca un ruolo decisivo: perché prima ancora che nelle statistiche, la distanza si misura nel racconto che una società sa fare di se stessa.

Da paternalismo a protagonismo dei giovani

In Italia abbiamo coltivato per decenni la narrazione del giovane da sostenere, da trattenere, da proteggere. Una narrativa paternalista che li colloca in uno spazio passivo, come se la direzione del cambiamento fosse già tracciata da altri e loro dovessero soltanto “adeguarsi”. Ma la verità è un’altra: non sono i giovani a dover essere accompagnati, sono loro ad accompagnarci. Sono loro che, con le scelte di studio, di lavoro, di migrazione o di permanenza, spostano il baricentro delle economie e delle culture. Sono loro che connettono mondi diversi, che aprono varchi, che inventano linguaggi. Loro che ogni giorno votano con i piedi, scegliendo dove vivere, lavorare, creare relazioni.

Giovani e futuro: perché non vanno “guidati”, ma seguiti
Giovani e futuro: perché non vanno “guidati”, ma seguiti

Il bivio narrativo

Imprese, istituzioni e territori hanno davanti un bivio narrativo: continuare a raccontare i giovani come “da trattenere”, oppure iniziare a rappresentarli come il vero acceleratore del cambiamento. Perché se sei su dieci sono pronti a partire, non è solo un problema da tamponare: è una chiamata collettiva a immaginare un Paese più attrattivo, in cui la mobilità non sia sinonimo di perdita, ma di circolazione di energie e competenze. E qui il linguaggio conta: dire “ci lasciano” è molto diverso dal dire “ci portano altrove”.

Ribaltare la prospettiva

Cambiare la rotta significa ribaltare la prospettiva. Non più giovani “oggetto” di politiche, ma soggetti che trainano strategie, visioni e persino valori. Se guardiamo con attenzione, già lo fanno: basti pensare al ruolo che hanno avuto nel diffondere nuove sensibilità ambientali, nel ridisegnare le regole del lavoro flessibile, nell’aprire l’Italia a una cultura digitale che altrimenti sarebbe rimasta più lenta. Non è un caso che molte start-up nascano da ragazzi che hanno avuto il coraggio di cercare opportunità fuori dai confini e poi di riportare esperienze, reti e idee.

I giovani come promotori di crescita

Per questo serve una nuova narrativa nazionale: smettere di certificare i giovani come “risorsa da salvare” e iniziare a riconoscerli come promotori di crescita. La comunicazione pubblica e quella d’impresa possono fare molto, non limitandosi a descrivere il fenomeno, ma contribuendo a ridefinire le cornici con cui lo leggiamo. Ogni volta che un ragazzo e una ragazza decide di studiare o lavorare all’estero, non stiamo perdendo dei cittadini: stiamo ampliando il perimetro della nostra comunità. Ogni volta che un giovane fonda una start-up a Berlino o accetta un contratto a Londra, non è una sottrazione, ma un investimento a ritorno differito: perché la rete di esperienze, conoscenze e relazioni che costruiscono, prima o poi, torna a ridisegnare anche la società d’origine.

Il futuro dell’Italia non si gioca quindi solo nella capacità di trattenere, ma nella capacità di accogliere, collegare e rilanciare. Se riusciremo a comunicare questo cambio di paradigma – che non sono i giovani a dover essere “guidati”, ma noi a doverci lasciare guidare da loro – allora avremo fatto un passo decisivo. Perché il Paese diventa attrattivo non quando convince i suoi figli a rimanere, ma quando riesce a diventare una casa da cui si può partire e a cui si vuole sempre tornare.

Happy growth!
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Armando Barone

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