Mi capita spesso di sentire dire che l’intelligenza artificiale sostituirà chi fa comunicazione. Ma la verità è più scomoda – e anche più interessante. L’AI sostituirà chi fa comunicazione solo se continuiamo a farla come l’abbiamo sempre fatta, appoggiandoci su modelli, KPI e metriche che appartengono a un altro tempo. Se accettiamo di restare lì, fermi, a raccontare senza leggere, a produrre contenuti senza capirne l’effetto, allora sì: verremo superati. E non sarà colpa della tecnologia.
Oggi, chi comunica ha in mano una leva potente. Ma solo se ha il coraggio di usarla in modo nuovo. La tecnologia non ci toglie spazio: ce lo restituisce. Ci offre la possibilità di essere davvero data-driven, non nel senso sterile del “misurare i risultati”, ma nel senso vivo del decidere con consapevolezza. Prima, durante, dopo. Ci permette di capire chi ascolta, cosa attiva attenzione, dove un messaggio genera fiducia, quando una parola diventa un comportamento.
La responsabilità delle scelte
In un mondo dove ogni funzione aziendale è chiamata a portare numeri, insight, ritorni misurabili, la comunicazione può scegliere se restare legata all’intuito e alla creatività non filtrata, oppure se trasformarsi in qualcosa di più: un sistema di intelligenza relazionale, capace di leggere segnali deboli, intercettare pattern, generare insight che pesano anche nei comitati dove si decide davvero.
Questo non vuol dire diventare analisti o data scientist. Vuol dire prendersi la responsabilità di scegliere cosa conta. Vuol dire guardare le metriche con spirito critico, sapere cosa va misurato e perché. Perché non tutte le visualizzazioni valgono uguale. Non tutti i contenuti generano valore. E non tutti gli impatti sono visibili a colpo d’occhio.
Penso spesso a cosa potrebbe fare oggi una funzione comunicazione con i dati giusti. Potrebbe individuare dove un messaggio viene frainteso e intervenire prima che la distorsione diventi crisi. Potrebbe leggere i trend interni che anticipano un calo di fiducia, o un’opportunità di crescita. Potrebbe collegare contenuti e comportamenti, e sapere – con dati alla mano – quali parole attivano un clic, una candidatura, un cambiamento.

Il contenuto e le priorità di business
Ma il punto non è più contare quanti post facciamo. È collegare ogni contenuto a una priorità di business. È poter dire: questa comunicazione ha accelerato l’adozione di un nuovo processo. Questa narrativa ha rafforzato la fiducia in un momento critico. Questo contenuto ha supportato un posizionamento chiave su un nuovo mercato. È lì che si misura il valore. Non nel “dopo”, ma nel “durante”.
Questa discussione non è nuova, è vero. Ma oggi, per la prima volta, abbiamo gli strumenti per rispondere alla domanda più importante: quale comunicazione genera, facilita o accelera una priorità strategica? I dati ci permettono di rispondere in modo oggettivo. Di trasformare la comunicazione da costo percepito a investimento tracciabile.
Bisogna costruire un sistema
Certo, non si tratta di like, reach o open rate. Non più. Si tratta di costruire un sistema che leghi contenuti a comportamenti, narrazione a fiducia, parole a decisioni. Un sistema capace di rispondere a domande nuove: questa comunicazione ha ridotto il tempo di adozione di un processo interno? Ha aiutato un cliente a capire meglio il nostro valore? Ha fatto crescere l’adesione a una trasformazione culturale?
In Accenture, ci stiamo muovendo proprio in questa direzione. Costruiamo la misurazione attorno a queste domande. Perché se non colleghi la comunicazione alle priorità del business, non stai comunicando davvero. Stai solo decorando la superficie.
Il coraggio di cambiare
E per farlo, serve anche qualcosa che non si misura: il coraggio. Il coraggio di cambiare approccio. Di uscire dalla comfort zone delle “belle parole”. Oggi, chi comunica non può limitarsi a scrivere bene o presentare con efficacia. Deve saper ascoltare i segnali, leggere i dati, interpretarli, usarli. Non per diventare tecnico. Ma per restare rilevante.
Una comunicazione capace di fare questo — di raccogliere dati, leggerli, parlare il linguaggio dell’azienda e generare impatto — non è un’utopia. È il prossimo standard. Ci arriveremo, ma solo se accettiamo una sfida culturale prima ancora che tecnologica. E se iniziamo a trattare la comunicazione per ciò che davvero è: una leva strategica. Non per raccontare cosa è successo. Ma per contribuire a farlo succedere.
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