Reinventare i giovani, una nuova generazione tra business e comunità
Reinventare una nuova generazione vuol dire più che includere i giovani nella comunicazione: significa ripensare il concetto stesso di “giovani”, intesi non come segmento demografico o semplice destinatario, ma come risultante di un processo collettivo, culturale, economico e civile. In un’epoca segnata da un forte inverno demografico, in cui la natalità diminuisce e l’età media della popolazione cresce, è cruciale chiedersi se stiamo facendo del nostro meglio per favorire la crescita di una generazione che dovrà affrontare un mondo molto differente da quello che le generazioni precedenti hanno ereditato.
Secondo l’ultimo Rapporto Giovani 2025, presentato il 20 maggio al Presidente della Repubblica, i giovani italiani tra i 18 e i 34 anni sono descritti come “consapevoli, desiderosi di contribuire al cambiamento, ma troppo spesso ostacolati da barriere economiche e sociali”. L’Osservatorio segnala un bisogno profondo di spazi concreti di crescita e partecipazione, non semplici parole d’ordine. In tal senso appare un buon segnale quello del Governo inglese che ha deciso di abbassare fino a 16 l’età per il diritto al voto.
In questo quadro, la comunicazione non può limitarsi a cercare di “parlare ai giovani”: deve trasformarsi in una pratica che li include come autori della narrazione, protagonisti con voce, spazio e responsabilità. Le imprese dovrebbero andare oltre il linguaggio studiato per intercettarli, aprendosi a co-creazione, mentorship, incubatori senza barriere generazionali, scelte comunicative che valorizzano l’esperienza e l’interpretazione dei giovani stessi.

Il punto è che quella che oggi chiamiamo generazione Z, o millennial, deve diventare la generazione A: A di autonomia, ascolto, azione. E questo non è solo un tema ideale: è una questione di sopravvivenza strategica. È assolutamente necessario continuare a produrre chip e tecnologie avanzate, ma allo stesso modo dobbiamo garantirci di avere giovani formati, motivati e protagonisti capaci di svilupparle, utilizzarle, migliorarle.
I dati IARD, frutto dell’indagine condotta dall’Istituto Toniolo in collaborazione con l’Università Cattolica tramite IPSOS, confermano questa esigenza: manca una struttura solida di supporto, culturale e istituzionale.
Tutto punta nella direzione di un cambio di paradigma per far emergere una generazione A che sarà contemporaneamente capitale umano, driver di innovazione e valore reputazionale per imprese e istituzioni.
Se è vero che la speranza non ha età, come scrive Francesco Macrì, giornalista, analista e saggista impegnato in particolare sul tema della condizione giovanile in Italia, è responsabilità degli adulti – imprese, scuole, istituzioni – darsi una scossa e creare un progetto per fare in modo che questa speranza non resti aspirazione, ma diventi un fatto concreto, generazione dopo generazione.
Il passaggio che conta: dall’attenzione alla fiducia
Viviamo in un tempo in cui anche il pesce rosso ci sta per superare. L’attenzione media umana è oggi stimata attorno agli 8,25 secondi. Otto secondi per attirare uno sguardo, convincere qualcuno a fermarsi, scegliere se proseguire o scorrere. Eppure, più che una conquista, l’attenzione assomiglia a un clic temporaneo. Un’apertura. Non un legame.
Per anni il mondo della comunicazione ha inseguito proprio questo: l’impatto. Più views, più stimoli, più rumore. Media, aziende, professionisti: tutti impegnati a non sparire, a restare visibili. Ma qualcosa sta cambiando. La soglia non è più “notarsi”. È “restare”. In un’epoca affollata di contenuti e povera di credibilità, la vera moneta è diventata un’altra: la fiducia.
Il mercato è saturo di contenuti, ma emotivamente vuoto. L’overload è ovunque: informativo, digitale, relazionale. Sempre più persone mostrano una stanchezza silenziosa verso la brillantezza di superficie, i format tutti uguali, le voci troppo perfette. Non si cercano più solo contenuti brillanti, ma luoghi dove sentirsi visti. Dove si possa credere a quello che si dice. Dove una parola, una storia, un gesto – anziché conquistare attenzione – meritino presenza.
L'attenzione è una leva preziosa
Succede qualcosa di simile nel business. L’attenzione resta una leva preziosa, certo: senza di essa, nessuna proposta viene nemmeno ascoltata. Ma se tutto si esaurisce lì, resta solo il rumore. La vera posta in gioco sembra essere un’altra: farsi scegliere, non solo notare. E la scelta nasce quasi sempre da un sentire più profondo. Ci si fida di chi appare coerente, di chi mantiene, non solo promette. L’attenzione si accende in un istante, ma la fiducia si costruisce nel tempo. Eppure è proprio quella a generare adesione, decisione, cambiamento.
Questo cambio di prospettiva riguarda anche i media, i leader, chi lavora, chi scrive, chi vende, chi guida. Siamo immersi in un ecosistema che ha esaltato per anni la visibilità, il contenuto performativo, il risultato immediato. Ma lentamente, sotto la superficie, si fa strada un’altra domanda: “Di chi posso fidarmi?”

La potenza della parola Fiducia
Fiducia non è una parola morbida. È un meccanismo potente, silenzioso. Non si può acquistare, né imporre. Si sente. È quella che ci fa tornare su una pagina, su un luogo, su una relazione. È quella che, in una riunione o in un articolo, ci fa pensare: “qui posso restare ancora un po’”.
Proprio sul fronte media ci sono case study interessanti da considerare. In un momento storico in cui la fiducia nei media ha toccato i minimi storici – solo il 36% degli americani dichiara di fidarsi completamente delle notizie (fonte: Gallup) – alcune testate hanno iniziato a cambiare rotta. Invece di inseguire i clic facili, stanno riscoprendo il valore della relazione con il lettore. È il caso di The New York Times, Wall Street Journal e NBC News, che negli ultimi anni hanno investito in strategie concrete per riconquistare credibilità.
La prima leva è stata la trasparenza. Il New York Times ha iniziato a raccontare non solo le notizie, ma anche chi le scrive. I profili dei giornalisti sono completi di informazioni su competenze e background, e vengono affiancati da contenuti extra: brevi video, Q&A su Instagram e TikTok, dietro le quinte del lavoro redazionale. Non più solo notizie, ma un patto di fiducia tra chi scrive e chi legge.
Business dei media e il valore della coerenza
Anche il Wall Street Journal ha scelto la strada del coinvolgimento diretto. I giornalisti diventano volti visibili: raccontano il processo dietro ogni inchiesta, rispondono ai dubbi dei lettori, entrano nel dialogo. Il consumo dell’informazione si fa più umano, meno passivo.
La NBC News, invece, ha puntato sulle notizie locali, quelle più vicine alle persone. Collaborando con stazioni TV territoriali, ha coperto congiuntamente emergenze ambientali, eventi pubblici e questioni sanitarie, riavvicinando i cittadini alle redazioni. L’informazione, così, torna a essere vicina, concreta, rilevante.
Infine, anche il racconto del brand ha cambiato tono. Dalla BBC a Hearst Newspapers (editore del San Francisco Chronicle e dell’Houston Chronicle), diverse realtà hanno avviato campagne editoriali che non promuovono solo il giornale, ma il ruolo stesso dell’informazione nella vita quotidiana. Contro la disinformazione, contro l’overload, in favore di una narrazione più vera.
La sfida della Comunicazione
I risultati si vedono:
- Aumenta l’engagement organico e partecipativo.
- Crescono gli abbonamenti da aree “non tradizionali”, come Midwest e Sud degli USA.
- Si rafforza una nuova dinamica di fiducia: non più consumo mordi-e-fuggi, ma appartenenza e continuità.
Questi media non chiedono più solo attenzione. Chiedono tempo, e lo restituiscono con trasparenza. E il pubblico, lentamente, sta tornando.
Forse è questo che stiamo riscoprendo: che non basta comunicare per esserci. Serve toccare. Non serve solo catturare l’attenzione: bisogna meritare il tempo.
E se l’attenzione è davvero precipitata sotto i dieci secondi, che tipo di profondità possiamo ancora offrire, costruire, lasciare?
Forse non serve rispondere subito. Ma restare con la domanda aperta, senza fretta, può già fare la differenza.
Immigrazione e talento: un nuovo paradigma competitivo per l’Italia
L’Italia si trova oggi di fronte a un bivio storico. In un tempo in cui l’inverno demografico si fa più rigido, e la trasformazione tecnologica accelera senza precedenti, l’immigrazione può rappresentare una risorsa risolutiva, se letta e gestita attraverso una chiave nuova: quella del valore, non della tolleranza.
I dati pubblicati da Il Sole 24 Ore sono eloquenti: tra il 2021 e il 2023, le imprese italiane hanno assunto 270.000 lavoratori stranieri attraverso il Decreto Flussi. Il fabbisogno potenziale stimato per i prossimi anni tocca quota 93.000 unità all’anno. Il bisogno è trasversale, riguarda l’agricoltura ma anche settori strategici come manifattura, edilizia, logistica, industria alimentare, servizi turistici e cura alla persona.
La strategia del Valore
Non si tratta più di “manodopera marginale”. Si tratta di tessuto produttivo, di filiere critiche, di ruoli scoperti in cui le imprese non trovano più candidati locali.
Tradizionalmente, siamo stati portati a pensare che i lavoratori stranieri servano a sostituire gli italiani nei lavori che “non vogliamo più fare”. Ma quella narrazione è superata. E, se insistiamo su di essa, rischiamo di rallentare la capacità del Paese di reagire a una crisi strutturale.
Questa non è una scorciatoia ma una sfida culturale: siamo pronti a considerare l’immigrazione come leva di crescita e non solo come necessità?
Poi c’è un altro fatto da considerare come aspetto di comunicazione non meno rilevante.
Inclusività e prospettive diverse
Quando parliamo di inclusività nelle imprese, ci riferiamo e comunichiamo quasi sempre equilibri di genere, parità di accesso, diversità anagrafiche. È giusto, ma non basta.
L’inclusività oggi va riletta alla luce anche della provenienza, della storia personale e della capacità di portare valore attraverso punti di vista differenti. Questo vale soprattutto nei mercati complessi e nei settori verticali in cui l’innovazione dipende dalla diversità delle competenze. Competenze che saranno sempre più aumentate dalla tecnologia fino a configurare l’Agente Digitale come un vero e proprio membro del team.
Integrare figure con un diverso background culturale e professionale non è un gesto etico, ma una scelta strategica. Le aziende che sapranno costruire ecosistemi inclusivi, internazionali, capaci di parlare più lingue e interpretare più mercati, saranno anche le più resilienti, le più credibili e le più attraenti.
Driver di questo cambiamento è il Sistema d’istruzione, attore propulsivo della trasformazione.

Soft power, vantaggio da valorizzare
C’è poi un altro aspetto da non sottovalutare: l’Italia è da sempre una destinazione desiderata. Per il clima, la cultura, lo stile, il tempo della vita. Questo immaginario — che è parte del nostro “soft power” — può diventare un asset competitivo decisivo. Ma va organizzato, reso sistema, inserito in una strategia coerente di attrazione del talento globale.
La contesa per il talento è mondiale. Le imprese non cercano solo braccia. Cercano menti, saperi, attitudini. E i Paesi in grado di offrire un contesto favorevole — in termini di qualità della vita, ma anche di regolarità amministrativa, riconoscimento delle competenze e percorsi di integrazione — saranno quelli che sapranno crescere, anche in un contesto competitivo e incerto.
L’Italia ha l’opportunità di guidare un nuovo modello di immigrazione che non porta freddo e tensione, ma calore umano, energia economica, e valore condiviso.
Tre livelli di impatto: economico, sociale, culturale
Una nuova visione che produce benefici tangibili su tre piani:
1. Economico, perché amplia e qualifica la base produttiva, riduce il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, e rafforza le filiere industriali.
2. Sociale, perché costruisce coesione vera, a partire dal riconoscimento reciproco e dalla valorizzazione del contributo di ciascuno.
3. Culturale, perché rompe la narrazione che vede l’immigrazione come problema, e la sostituisce con una narrazione fondata su merito, competenza, prospettiva.
Un’Italia propulsiva, non passiva, in grado di creare una nuova alleanza tra imprese, istituzioni e società civile, capace di costruire un’Italia moderna, attrattiva, aperta al mondo ma radicata nella propria eccellenza.
Non è un sogno. È un progetto possibile. Ma, come ogni progetto ambizioso, richiede visione, coraggio e responsabilità condivisa.
Media: il sorpasso è grazie al modello non ai dati
326.000 spettatori in meno in prima serata. Per la prima volta l’audience media della TV lineare scende sotto i 20 milioni. Potrebbe sembrare un dato tecnico, ma in realtà è molto di più: è un segnale di rotta.
Perché non è solo la TV a rallentare. È l’intero impianto di comunicazione tradizionale a mostrare un nuovo segno di instabilità. E con esso, il modello di business, la pubblicità, il posizionamento dei brand e persino le relazioni tra aziende e società.
Tramonta il modello della Tv tradizionale
A nostro avviso l’indebolimento della TV è l’ennesima prova di una società post-digitale difficile da inquadrare da parte degli editori. Business plan basati su media tradizionali e la centralità del palinsesto iniziano a mostrare le proprie crepe dal momento che la vita delle persone si muove su piattaforme che funzionano in logica asincrona, algoritmica, personalizzata.
Gli editori non sono i soli ad essere alle prese con i primi segnali di un futuro profondamente diverso. I consumatori stanno mettendo in crisi anche la comunicazione Corporate. Non seguono spot, claim o post confezionati a tavolino: cercano riconoscimento. Cercano contenuti che parlino di loro. Lentamente si sta passando dalla logica del broadcasting a quella del riconoscimento attivo.

Le nuove regole del gioco
Chi comunica – che sia un CEO, un brand manager o un team social – deve accettare una nuova regola del gioco: non basta più pubblicare, bisogna sintonizzarsi. Non basta più parlare, bisogna connettere. E connettere, oggi, è una forma strategica di leadership.
Ma tutto questo si inserisce in un contesto ancora più complesso: quello delle regole. I giornalisti rispondono a un ordine professionale, hanno una deontologia, un mandato pubblico. I creator no. I social non sono chiamati a garantire trasparenza, pluralismo o qualità informativa. Questa asimmetria regolatoria non è solo un dettaglio tecnico: è una frattura sistemica rilevante.
Serve un nuovo modello, per consolidare la fiducia
Il risultato? Da un lato il pubblico migra verso contenuti più autentici, più diretti, più personali ma spesso di cattiva qualità. Dall’altro, le aziende faticano a trovare la propria voce in questo rumore di fondo. E gli editori faticano sempre di più.
Serve un cambio di postura. Un ripensamento profondo dell’ecosistema e del modello di business. In gioco non sono i KPI ma la rilevanza. E, ancora più in profondità, c’è la fiducia.
Chi non comprende questo cambiamento rischia di continuare a guardare il dito, ignorando la luna. E chi pensa di poter delegare tutto a un algoritmo, rischia di perdere il contatto con la società. Il problema, allora, non sarà solo tecnologico. Sarà culturale.
Happy media!
Ascesa della Creator Economy, un modello ibrido per creare valore
Nel 2025, per la prima volta, i ricavi pubblicitari generati da contenuti user-generated superano quelli dei media. Una trasformazione silenziosa ma epocale: la pubblicità non passa più (solo) dai canali tradizionali, ma da persone. E da relazioni.
La cosiddetta creator economy — che secondo Statista supererà i 33 miliardi di dollari nel 2025, con un +36% su base annua — sta riscrivendo i piani media di tutti i brand. Sotto la pressione di budget più snelli e aspettative più fluide, le aziende privilegiano creator e community rispetto all’advertising.
Ma se il creator è il nuovo media, chi è l’editore? Chi è il garante? Quali sono le regole? Ogni innovazione è da guardare con favore: crea concorrenza, nuovi standard ma per creare anche qualità deve muoversi dentro un sistema di regole certo e trasparente.
Differentemente sarà sempre più difficile distinguere un’opinione basata sull’interesse da un racconto personale. La fiducia non si costruirà più attraverso la trasparenza o la reputazione, ma con l’emotività. E se questa “voce” rappresenta un brand, il rischio reputazionale è dietro l’angolo.

Abbiamo detto, non serve demonizzare il nuovo. Serve capirlo e governarlo.
Un brand responsabile potrebbe adottare una strategia “ibrida”:
- Co-creare, affiancando i creator come partner editoriali, dentro cornici narrative e valoriali condivise;
- Formare ed educare, offrendo strumenti a chi comunica il brand perché lo faccia con la massima consapevolezza e rigore;
- Istituire un comitato etico-editoriale interno, che supervisioni i contenuti, ne valuti il rischio, e mantenga coerenza e integrità, estendendo così le regole del giornalismo a questo nuovo settore.
Senza un sistema, il mercato perde fiducia. Senza regole, l’autenticità diventa un trucco. Senza metodo, la creator economy rischia di implodere sotto il peso delle sue stesse promesse. Il futuro della comunicazione non è una questione di reach ma di valore.
Happy influencing!
Motor Valley Fest 2025: alleanza tra imprese e territorio per l'innovazione
La settima edizione del Motor Valley Fest di Modena conclusa la settimana scorsa mi ha permesso di focalizzarmi rispetto all’importanza delle aziende sul territorio e di come l’alleanza pubblico-privato può creare eccellenza come accade nella “valle dei motori”.
Il legame dei grandi brand dell’automotive del lusso e della loro filiera con Modena è palpabile, una connessione che si basa su una missione condivisa, tanto forte che non credo sia immaginabile organizzare questo evento in un altro luogo senza svuotarlo di significato.
Persone, eccellenza, trasformazione, tecnologie, riconoscenza, sono state le parole più usate dai relatori, parole che erano azione, uno storydoing che dal passato andava al futuro senza generare alcun dubbio nell’audience.
Le aziende sono radicate nel territorio
Ascoltando storie, visioni e ambizioni, mi ha restituito una consapevolezza nitida: le aziende qui non sono semplicemente presenti, ma profondamente radicate. Non si limitano a operare sul territorio, lo abitano, lo rappresentano, ne portano avanti l’identità come parte integrante del proprio DNA. Quello che ho percepito è un senso di appartenenza raro, quasi fisico, che trasforma ogni presenza industriale in un atto culturale. Il Motor Valley Fest, in questo, è un esempio limpido di "glocalismo attivo": un evento che nasce locale, ma parla un linguaggio capace di attraversare confini.
È il racconto di un territorio che non esporta solo prodotti, ma valori, eccellenza e visione sostenibile, con un’intensità che difficilmente si può replicare altrove.
In questo contesto così fertile, si percepisce con chiarezza quanto la co-progettazione tra pubblico e imprese private sia ormai una leva strategica, non un’opzione.
Contribuire alla costruzione di un ecosistema
Non si tratta più solo di sponsorizzare un evento, ma di contribuire attivamente alla costruzione di un ecosistema che genera valore reale e misurabile: innovazione tecnologica, investimenti che restano sul territorio, opportunità di lavoro qualificato per le nuove generazioni. In questo senso, realtà come la mia Accenture agiscono non da ospiti, ma da abilitatori sistemici: portando competenze, reti internazionali e strumenti digitali in grado di amplificare ciò che già esiste e traghettarlo nel futuro. Una partecipazione che non è presenza, ma partecipazione generativa, capace di creare impatto ben oltre il perimetro dell’evento.

Motor Valley Fest, evento collettivo
È proprio in questa logica che il Motor Valley Fest si distingue da un punto di vista comunicativo: non come semplice vetrina, ma come performance collettiva di reputazione attiva. Qui ogni brand anche attraverso i suoi CEO è chiamato a “stare in scena” non con slogan, ma con comportamenti, scelte, progetti concreti. È nei gesti, nelle partnership, nei contenuti portati sul palco — o nei prototipi esposti nei cortili — che si leggono e respirano i valori autentici delle aziende. Oggi la reputazione non si dichiara, si dimostra, in contesti come questo lo spazio per la retorica è minimo. La forza di un’azienda si misura nella coerenza tra ciò che promette e ciò che mette in campo. Il Motor Valley Fest, da questo punto di vista, diventa una lente d’ingrandimento potente su cosa significhi davvero “essere rilevanti” nel 2025.
La trasformazione che lascia il segno
E proprio perché visibilità e coerenza oggi camminano insieme, diventa evidente come la vera trasformazione — quella che lascia il segno — non possa essere solo digitale, ma deve essere anche culturale. Tra le parole più ricorrenti durante l’evento ho sentito “tecnologie” e “persone” pronunciate con la stessa intensità: segno che l’innovazione, per essere credibile, ha bisogno di cuore e infrastruttura insieme. In questo equilibrio sottile si inserisce il contributo delle aziende partecipanti, che non portano solo soluzioni digitali, ma una visione integrata fatta di competenze, attenzione alla sostenibilità, e crescita della leadership interna ed esterna. Non si tratta di spingere la trasformazione: si tratta di accompagnarla, con la consapevolezza che ogni accelerazione ha senso solo se inclusiva, formativa e umana.
La sostenibilità abilita il cambiamento
E accompagnare davvero la trasformazione oggi significa anche assumersi la responsabilità del suo impatto. La sostenibilità, in questo scenario, non è un’appendice né una moda da inserire nei panel: è la metrica profonda del cambiamento. L’ho vista emergere non solo nei discorsi, ma nelle scelte visibili di molte aziende: dalla mobilità elettrica ai materiali riciclati, dalla progettazione circolare all’educazione dei giovani talenti verso un’industria più consapevole. La mia Accenture, in particolare, si muove in questa direzione con una visione che integra ambiente, tecnologia e inclusione, perché sa che un ecosistema è davvero tale solo quando la crescita è condivisa, misurabile e sostenibile nel tempo. In un contesto così, la sostenibilità smette di essere narrativa e diventa cultura operativa.
Ecosistema attivo: imprese, istituzioni, comunità
Ci tengo a concludere condividendo che da questo evento vale la pena allargare lo sguardo. Ciò che accade a Modena non è solo un evento di settore, ma un esempio di come un territorio possa diventare ecosistema attivo, in cui imprese, istituzioni e comunità si riconoscono e agiscono insieme. La Motor Valley dimostra che quando c’è una missione condivisa, l’identità non è nostalgia: è motore di innovazione viva. È un invito, sottotraccia ma potente, per altri settori del Made in Italy— dall’agroalimentare al turismo, dall’energia alla formazione — a domandarsi se il proprio racconto poggia ancora su narrazioni esterne o se ha trovato, invece, la forza di esprimersi attraverso fatti, alleanze e visioni incarnate.
Forse il vero lascito di eventi come questo non è la celebrazione, ma la chiamata a costruire contesti dove le parole — persone, eccellenza, trasformazione, riconoscenza — non restano nei discorsi, ma prendono forma. Camminano. E lasciano una traccia.
Il potere della comunicazione, perché il business deve crederci
Molte aziende trattano ancora la comunicazione come un’attività operativa o estetica (“facciamo il post”, “facciamo il video”), e non come un elemento centrale della strategia di business. L’intento di questo articolo è dissuadere da una comunicazione slegata dal progetto imprenditoriale, perché essa è un asset che impatta direttamente sul conto economico, incidendo su ricavi e profitti. In questo contesto, l’intelligenza artificiale generativa e gli agenti digitali non devono spaventare: rappresentano un alleato per amplificare il potere narrativo e liberare tempo da dedicare al valore.
Il potere delle emozioni e della forma del messaggio
Che sia scritta, ascoltata in un podcast o vissuta visivamente, ogni forma di comunicazione incide sulle decisioni d’acquisto. La struttura del messaggio, il ritmo, le emozioni – il 54% degli acquirenti a livello globale cerca emozioni nello shopping online – che un brand sceglie di condividere influenzano direttamente i clienti.
Senza una strategia, la comunicazione è solo un flusso disordinato: poco importa quanto “bella” possa sembrare.
Un caso ispirante: Etsy e le collezioni algotoriali
Condivido un caso che mi ha colpito.
La piattaforma di e-commerce, focalizzata su prodotti artigianali e vintage, ha introdotto collezioni “algotoriali”: una selezione iniziale curata da persone (50 articoli) viene espansa dall’IA in oltre 1.000 suggerimenti stilisticamente coerenti ma sorprendenti. Risultato? +23% nel tempo medio di sessione sull’app. Un segnale chiaro: la Gen AI può essere complice della scoperta.
B2B: quando la comunicazione diventa relazione
Anche nel B2B la comunicazione non è più solo informativa, ma relazionale. I decisori aziendali non cercano solo dati: vogliono esperienze, coerenza, fiducia. Mai come oggi le figure apicali si mostrano disponibili al confronto – anche pubblico – tra pari. Il confronto diventa un asset per contrastare l’incertezza.
Sempre più aziende B2B si stanno trasformando in B2BtoC, chiamate a comunicare lungo tutta la filiera, fino all’utente finale.
Per questo serve una strategia narrativa capace di connettere valori, tecnologia e persone.

Sei mosse per reinventare il business attraverso la comunicazione
Ecco 6 consigli pratici per reinventare il business attraverso la comunicazione – sia in contesti B2C che B2B:
-
Lega il piano di comunicazione al business plan. Questo ti aiuterà a essere rilevante e a distinguere ciò che è “nice to have” da ciò che è “must have”.
-
Passa da “messaggi” a “esperienze”. Non limitarti a trasmettere informazioni: progetta esperienze di comunicazione che coinvolgano emozioni, sensi e interazioni. Che sia una demo, una mail o un evento, chiediti: cosa sentirà la persona, non solo cosa capirà?
-
Metti in scena i tuoi valori, non solo i tuoi prodotti. Le persone (clienti, partner o dipendenti) comprano ciò in cui credono. Valorizza la cultura aziendale attraverso storie autentiche, scelte editoriali coerenti e contenuti che riflettano il “perché” oltre al “cosa”.
-
Integra IA e umanità. L’intelligenza artificiale può moltiplicare efficienza e personalizzazione, ma non deve annullare l’unicità del brand. Usa l’IA come assistente creativo, non come copia-incolla emozionale.
-
Reinventa i touchpoint interni. La comunicazione non è solo esterna. Newsletter interne, onboarding, riunioni… sono occasioni strategiche per rafforzare l’identità aziendale, alimentare la motivazione e creare senso di appartenenza.
-
Allena il team alla narrativa strategica. Ogni persona in azienda è un portavoce. Offri formazione e strumenti per trasformare tecnicismi in storie e trasmettere visione, valore e impatto in ogni scambio. La comunicazione efficace è una soft skill strategica.
Happy communication!
Benessere mentale, ecco perché le aziende non devono ignorarlo
Immagina il benessere mentale come un sistema operativo. Per anni abbiamo lavorato con versioni datate, trascurando bug come stress e ansia. Ora, però, un aggiornamento è indispensabile: più della metà dei lavoratori globali sta ripensando il proprio ruolo a causa di problemi legati alla salute mentale.
In risposta, il 94% dei manager e l’89% dei dipendenti sostengono l’adozione di strumenti per il benessere mentale potenziati dall’intelligenza artificiale. In un contesto dove i servizi pubblici spesso non riescono a soddisfare la crescente domanda di supporto psicologico, le aziende emergono come attori chiave nel colmare queste lacune. Non si tratta più solo di offrire assistenza post-crisi, ma di implementare strategie preventive che promuovano un ambiente lavorativo sano e resiliente.
Programmi di formazione, workshop sul benessere e politiche aziendali inclusive diventano strumenti essenziali per prevenire il deterioramento della salute mentale dei dipendenti.
Adattarsi è fondamentale
In un mondo in continua evoluzione, la capacità di adattarsi e superare le difficoltà è fondamentale. Le aziende hanno il compito di fornire ai propri dipendenti e clienti gli strumenti necessari per sviluppare la resilienza emotiva. Attraverso programmi di coaching, sessioni di mindfulness e accesso a risorse psicologiche, è possibile costruire una forza interiore che permette di affrontare le sfide quotidiane con maggiore serenità e determinazione.
Il benessere mentale non dovrebbe essere un lusso, ma una componente integrata nella vita di tutti i giorni. Iniziative come pause benessere durante l’orario lavorativo, accesso a piattaforme di supporto psicologico e promozione di stili di vita sani possono essere implementate senza gravare economicamente sui consumatori.

Il benessere come pratica quotidiana
L’obiettivo è rendere il benessere una pratica quotidiana, accessibile a tutti, indipendentemente dal contesto socio-economico. Tecnologia e cultura aziendale: alleati del benessere mentale.
La trasformazione digitale sta aprendo nuove strade al supporto psicologico, rendendo il benessere accessibile, personalizzabile e sempre più integrato nella vita quotidiana. Applicazioni intelligenti e piattaforme digitali permettono oggi di monitorare l’umore, gestire lo stress e accedere a risorse terapeutiche in tempo reale.
AXA, ad esempio, ha introdotto il Mind Health Self-Check, uno strumento gratuito e anonimo che valuta lo stato mentale degli utenti e fornisce consigli pratici personalizzati.
Headspace ha sviluppato una piattaforma integrata per aziende e operatori sanitari, offrendo coaching, terapia e supporto all’equilibrio vita-lavoro, con impatti documentati su ansia e depressione.
Anche in Italia si stanno moltiplicando esperienze virtuose. La mia Accenture ha scelto di mettere il benessere al centro della propria cultura organizzativa, riconoscendone il valore strategico oltre che umano. Dall’Employee Assistance Program, disponibile 24/7 per dipendenti e familiari, alla community Thrive Yourself, fino ai percorsi formativi come Thriving Mind o Mental Health Ally, l’azienda promuove una visione olistica della salute mentale, dove prevenzione, supporto e consapevolezza convivono in modo integrato.
La salute mentale è in investimento, non un costo
Questi esempi dimostrano che la tecnologia, da sola, non basta. Serve una cultura che valorizzi il benessere come priorità condivisa, che superi stigma e reticenze, e che costruisca ambienti di lavoro realmente inclusivi e sostenibili. La salute mentale è una responsabilità collettiva — e un investimento di lungo periodo.
In un’epoca in cui la salute mentale è al centro dell’attenzione, adottare uno stile di vita sano e consapevole diventa un simbolo di successo e realizzazione personale. Le aziende che investono nel benessere dei propri dipendenti non solo migliorano la produttività, ma contribuiscono a costruire una società più equilibrata e resiliente. In questo contesto, la salute mentale non è più un tabù, ma un obiettivo condiviso e valorizzato.
Quando lo sport riesce ad accendere il futuro
I Greci capirono che lo sport è una leva strategica per unire il popolo intorno ad una missione e creare lo “spirito del tempo”. I romani seppero cogliere questa intuizione ed elevarla nella strategia di gestione di un’area geografica che andava dall’Italia, all’Africa, all’Inghilterra fino al Medioriente creando un pilastro della cultura che ancora oggi riempie la nostra quotidianità.
Lo sport come leva di unione sociale
Lo sport, quindi, non è solo un fatto di trofei. Il campionato di calcio vinto dal Napoli, cattura l’occhio del mondo per la capacità del popolo partenopeo di festeggiare, dai più commentatori considerata “unica”, ma per coglierne il reale valore è nostra opinione bisogna guardare con maggiore attenzione, perché come abbiamo detto lo sport è molto di più 11 giovani talentosi che corrono dietro ad una palla.
La rinascita dal fallimento a modello
Facciamo un passo indietro. La società sportiva Calcio Napoli nel 2004 è fallita. Quando furono portati i libri in tribunale un imprenditore la comprò. Questo signore si chiama Aurelio De Laurentis, l’attuale presidente del club. Come è possibile che un imprenditore senza esperienza nel calcio abbia in poco più di due lustri portato un club fallito ai vertici dello sport nazionale mettendo in fila club blasonati come, Milan, Juventus e Inter?
A nostro parere è stata la capacità di creare un progetto fondato su una missione chiara, “Vincere, vincere e rivincere – dichiara De Laurentis” , basata sui valori del territorio e in grado di creare un nuovo “spirito del tempo”. I napoletani, tradizionalmente scaramantici, hanno manifestato chiaramente l’adesione a questo nuovo “sentire comune” arrivando a tatuarsi addosso il simbolo del quarto scudetto nonostante la sfida aperta dell’Inter conclusasi solo all’ultima partita disponibile. Un capolavoro di comunicazione purpose driven.

Sostenibilità e governance: un modello da studiare
Ma gli economics? De Laurentis nuovo mecenate che ad un certo punto scompare lasciando la società sul lastrico finanziario? Nemmeno per sogno. Il progetto, forte dei propri valori, ha alla sua base la sostenibilità. I conti del club sono in ordine e l’attrattività del brand – un club che gioca in uno stadio che De Laurentis ha voluto fosse chiamato Diego Armando Maradona, un contemporaneo dio dell’Olimpo - , unita ad una capacità di scouting e valorizzazione del talento che pochi possono vantare, ha reso possibile la vittoria del quarto titolo nonostante la rinuncia ai calciatori di maggiore talento, Victor Osimhen e Khvicha Kvaratskhelia bravi con il pallone tra i piedi, ma non più allineati alla “missione” della dirigenza.
Una vittoria senza precedenti
Non stupisce quindi l’unicità del trionfo del Napoli, considerato ancor più sbalorditivo perché per la prima volta nel campionato di calcio italiano (la formula attuale risale al 1929) una squadra si è affermata dopo un precedente campionato dove si era piazzata solo decima. Sicuramente è stata determinante la figura dell’allenatore ma la scelta del preparatissimo Antonio Conte è stata fondata sui valori e di conseguenza vincente.
Così come i romani forgiarono una missione di popolo in grado di guidare anche l’economia, anche Napoli sta vivendo un momento di entusiasmo che crea indotto economico, nonostante un tessuto socio-economico distante dai migliori modelli occidentali.
Lo sport è una leva di trasformazione
Napoli ha vinto ancora. Era già accaduto nel 2023 quando un’intera economia urbana — ristorazione, trasporti, hotellerie — trasse beneficio dal trionfo. Ma soprattutto, un’intera comunità si riconobbe nel successo.
Lo sport è una leva strutturale di trasformazione, così come le Olimpiadi di Barcellona del 1992 hanno rilanciato prima la città e poi la Spagna, chissà che questa vittoria senza precedenti del Napoli non aiuti il Paese a reinventarsi sulla forza di una missione condivisa.
Happy Sport!
Comunicazione intergenerazionale: quando il team diventa il messaggio
Perché le aziende più visionarie stanno scoprendo che il vero vantaggio competitivo non è solo nella strategia, ma nella composizione generazionale dei team che la pensano, la scrivono e la raccontano.
La comunicazione non è mai neutra. Porta con sé codici, riferimenti, tempi e visioni del mondo. In un contesto in cui i brand devono parlare a pubblici sempre più multigenerazionali e diversificati, avere un team di comunicazione intergenerazionale non è solo utile: è strategico. Ma attenzione: non si tratta solo di mettere insieme giovani digitali e professionisti senior. La differenza si fa quando le competenze si potenziano a vicenda, generando un output che nessuna generazione, da sola, sarebbe in grado di produrre maggiore produttività e soddisfazione dei dipendenti.
Un rapporto di Harvard Business Publishing sottolinea che team inclusivi e diversificati tendono a superare in performance quelli omogenei, grazie alla varietà di prospettive e all’autenticità promossa all’interno del gruppo.
Un professionista con vent'anni di campagne alle spalle conosce bene le strutture persuasive, il peso delle parole, la coerenza di marca nel tempo. Un talento più giovane, magari nativo digitale, si muove con agilità tra nuovi format, tone of voice mutevoli, contenuti effimeri. Quando si lavora insieme, la strategia non è più solo un piano logico: diventa un ecosistema vivo, capace di dialogare sia con la solidità di un brand book sia con l'agilità di una story su TikTok.
Un copy senior sa costruire ritmo, tensione narrativa, evocazione. Ma spesso rischia di usare formule datate. Un junior ha accesso al linguaggio del momento, ma può mancare di profondità. Metterli in coppia (o farli co-editare) significa creare un testo che sa parlare sia al cuore che all'algoritmo. Un copy con memoria e futuro.
In un mondo in cui l'immagine è sempre più linguaggio, avere visioni estetiche di epoche diverse nello stesso flusso creativo può fare la differenza. I visual designer più esperti conoscono l'equilibrio, l'identità, il dettaglio. I più giovani portano glitch, velocità, contaminazioni. Insieme possono creare contenuti che siano rilevanti oggi, ma risonanti anche domani.

Anche il lavoro degli specialisti delle PR aziendali può arricchirsi enormemente grazie all’intergenerazionalità. I professionisti senior portano una comprensione profonda delle dinamiche istituzionali, delle relazioni con i media tradizionali, della gestione delle crisi con equilibrio e senso della misura. I più giovani, invece, conoscono il linguaggio degli influencer, le dinamiche della reputazione distribuita, i codici del tempo reale.
Quando queste competenze si incontrano, nascono strategie di comunicazione capaci di presidiare ogni tipo di conversazione, dalla conferenza stampa ufficiale al tweet virale, passando per le relazioni con stakeholder giovani e movimenti emergenti. È qui che le PR smettono di essere difensive o promozionali, e diventano architettura dinamica della reputazione.
Due casi sono emblematici. Gucci ha introdotto un "consiglio ombra" composto da giovani talenti che affiancano il top management. Il risultato? Non solo idee più fresche, ma anche una comunicazione più coerente con il sentire culturale dei nuovi pubblici. E in molte agenzie creative stanno nascendo "coppie miste" formate da un senior e un junior: i pitch migliori nascono proprio da tensioni generazionali risolte creativamente, non da briefing lineari.
In un'epoca in cui il pubblico ha imparato a decodificare ciò che sta dietro il contenuto, anche la composizione del team è parte della narrazione. Un brand che comunica attraverso una pluralità di generazioni comunica inclusione, ascolto e visione.
Non si tratta di un gesto politico, ma di un atto strategico: solo chi ascolta più generazioni sarà in grado di parlarne. E c'è di più: grazie alla collaborazione intergenerazionale, i team possono uscire dalle metriche di vanità (like, reach, impressioni) per concentrarsi su impatti reali: brand trust, profondità di engagement, fidelizzazione a lungo termine. Perché quando i contenuti nascono da voci diverse, parlano a pubblici diversi. E non solo per essere visti, ma per essere ricordati.
Happy Collaboration!