Il passaggio che conta: dall’attenzione alla fiducia
Viviamo in un tempo in cui anche il pesce rosso ci sta per superare. L’attenzione media umana è oggi stimata attorno agli 8,25 secondi. Otto secondi per attirare uno sguardo, convincere qualcuno a fermarsi, scegliere se proseguire o scorrere. Eppure, più che una conquista, l’attenzione assomiglia a un clic temporaneo. Un’apertura. Non un legame.
Per anni il mondo della comunicazione ha inseguito proprio questo: l’impatto. Più views, più stimoli, più rumore. Media, aziende, professionisti: tutti impegnati a non sparire, a restare visibili. Ma qualcosa sta cambiando. La soglia non è più “notarsi”. È “restare”. In un’epoca affollata di contenuti e povera di credibilità, la vera moneta è diventata un’altra: la fiducia.
Il mercato è saturo di contenuti, ma emotivamente vuoto. L’overload è ovunque: informativo, digitale, relazionale. Sempre più persone mostrano una stanchezza silenziosa verso la brillantezza di superficie, i format tutti uguali, le voci troppo perfette. Non si cercano più solo contenuti brillanti, ma luoghi dove sentirsi visti. Dove si possa credere a quello che si dice. Dove una parola, una storia, un gesto – anziché conquistare attenzione – meritino presenza.
L'attenzione è una leva preziosa
Succede qualcosa di simile nel business. L’attenzione resta una leva preziosa, certo: senza di essa, nessuna proposta viene nemmeno ascoltata. Ma se tutto si esaurisce lì, resta solo il rumore. La vera posta in gioco sembra essere un’altra: farsi scegliere, non solo notare. E la scelta nasce quasi sempre da un sentire più profondo. Ci si fida di chi appare coerente, di chi mantiene, non solo promette. L’attenzione si accende in un istante, ma la fiducia si costruisce nel tempo. Eppure è proprio quella a generare adesione, decisione, cambiamento.
Questo cambio di prospettiva riguarda anche i media, i leader, chi lavora, chi scrive, chi vende, chi guida. Siamo immersi in un ecosistema che ha esaltato per anni la visibilità, il contenuto performativo, il risultato immediato. Ma lentamente, sotto la superficie, si fa strada un’altra domanda: “Di chi posso fidarmi?”

La potenza della parola Fiducia
Fiducia non è una parola morbida. È un meccanismo potente, silenzioso. Non si può acquistare, né imporre. Si sente. È quella che ci fa tornare su una pagina, su un luogo, su una relazione. È quella che, in una riunione o in un articolo, ci fa pensare: “qui posso restare ancora un po’”.
Proprio sul fronte media ci sono case study interessanti da considerare. In un momento storico in cui la fiducia nei media ha toccato i minimi storici – solo il 36% degli americani dichiara di fidarsi completamente delle notizie (fonte: Gallup) – alcune testate hanno iniziato a cambiare rotta. Invece di inseguire i clic facili, stanno riscoprendo il valore della relazione con il lettore. È il caso di The New York Times, Wall Street Journal e NBC News, che negli ultimi anni hanno investito in strategie concrete per riconquistare credibilità.
La prima leva è stata la trasparenza. Il New York Times ha iniziato a raccontare non solo le notizie, ma anche chi le scrive. I profili dei giornalisti sono completi di informazioni su competenze e background, e vengono affiancati da contenuti extra: brevi video, Q&A su Instagram e TikTok, dietro le quinte del lavoro redazionale. Non più solo notizie, ma un patto di fiducia tra chi scrive e chi legge.
Business dei media e il valore della coerenza
Anche il Wall Street Journal ha scelto la strada del coinvolgimento diretto. I giornalisti diventano volti visibili: raccontano il processo dietro ogni inchiesta, rispondono ai dubbi dei lettori, entrano nel dialogo. Il consumo dell’informazione si fa più umano, meno passivo.
La NBC News, invece, ha puntato sulle notizie locali, quelle più vicine alle persone. Collaborando con stazioni TV territoriali, ha coperto congiuntamente emergenze ambientali, eventi pubblici e questioni sanitarie, riavvicinando i cittadini alle redazioni. L’informazione, così, torna a essere vicina, concreta, rilevante.
Infine, anche il racconto del brand ha cambiato tono. Dalla BBC a Hearst Newspapers (editore del San Francisco Chronicle e dell’Houston Chronicle), diverse realtà hanno avviato campagne editoriali che non promuovono solo il giornale, ma il ruolo stesso dell’informazione nella vita quotidiana. Contro la disinformazione, contro l’overload, in favore di una narrazione più vera.
La sfida della Comunicazione
I risultati si vedono:
- Aumenta l’engagement organico e partecipativo.
- Crescono gli abbonamenti da aree “non tradizionali”, come Midwest e Sud degli USA.
- Si rafforza una nuova dinamica di fiducia: non più consumo mordi-e-fuggi, ma appartenenza e continuità.
Questi media non chiedono più solo attenzione. Chiedono tempo, e lo restituiscono con trasparenza. E il pubblico, lentamente, sta tornando.
Forse è questo che stiamo riscoprendo: che non basta comunicare per esserci. Serve toccare. Non serve solo catturare l’attenzione: bisogna meritare il tempo.
E se l’attenzione è davvero precipitata sotto i dieci secondi, che tipo di profondità possiamo ancora offrire, costruire, lasciare?
Forse non serve rispondere subito. Ma restare con la domanda aperta, senza fretta, può già fare la differenza.
Dalle scuse di Zuckerberg ad una nuova era dei social media
Facebook compie 20 anni e il quasi simultaneo atto di scuse pubbliche da parte del co-fondatore presidente e CEO di Meta, Mark Zuckerberg, alle famiglie dei minori danneggiati dall'uso dei social media, segna un momento cruciale del settore.
Questo evento, avvenuto durante un'udienza del Senato degli Stati Uniti alla quale hanno partecipato gli AD delle principali piattaforme social, evidenzia uno dei problemi che unisce l'occidente: l'urgenza di affrontare le minacce poste dall'uso dei social media ai minori.
L'impatto dei social media sui minori e società
La realtà che emerge è univoca: l'uso improprio dei social può causare danni tangibili, sia a livello individuale che collettivo. Questo riconoscimento suggerisce a chi gestisce questi canali di ripensare radicalmente l'approccio alla governance aziendale andando oltre le policy interne e di iniziare a guardare alla regolamentazione come un asset indispensabile per garantire la sostenibilità futura delle aziende e del settore.

La posto in gioco è enorme, sia dal punto di vista sociale a tutela del sempre più scarso patrimonio di giovani che caratterizza i paesi occidentali ma anche le stesse aziende del settore. Usiamo sempre l'azienda di Mark Zuckerberg come esempio. Meta, che continua a macinare record, vale infatti oggi 1.2 trilioni di dollari. È semplice immaginarsi che se lo scandalo di Cambridge Analytica è costata 7 miliardi di dollari, quanto potrebbe fare male all'azienda di Menlo Park una crisi che avesse al suo centro una fetta determinante di audience come i giovani.
Anche qui l'Europa potrebbe ribadire l'indiscusso dominio giuridico culturale, semmai prendendo spunto dalla regolamentazione del settore TLC. Allo stesso modo sembra maturo un ragionamento rispetto al mercato dell'ADV on line per incentivare il passaggio da un sistema basato sui volumi a quello sulla qualità. Fatto che potrebbe portare benefici anche ai mercati "adiacenti" a quello delle Big Tech come l'editoria.
I social media e la regolamentazione
Tuttavia, l'episodio delle scuse di Meta rappresenta solo l'inizio di un percorso necessario verso un mercato più sostenibile. Parte della sfida è infatti in capo alle aziende e ai brand. Nell'epoca della "purpose driven company" è sempre più vicino il momento in cui i consumatori inizieranno a volgere lo sguardo verso di loro rispetto alla postura dei grandi player dell'online. Questo implicherà necessariamente la definizione di coerenti strategie di comunicazione e pianificazione mezzi.
Credo quindi che i social network si stiano avvicinando ad un bivio: continuare sulla strada dell'autoregolamentazione o intraprendere un percorso con il Regolatore per la definizione di norme che garantiscano la sostenibilità del business e il benessere collettivo.
La direzione scelta sarà determinante non solo per il futuro dei social network ma per la società nel suo complesso.
Happy Social!
Il valore della reputazione nell'era post digitale
Nell'era dell'informazione e della globalizzazione, la reputazione ha assunto un ruolo centrale come mai prima d'ora. Viviamo in un mondo interconnesso, dove le informazioni viaggiano alla velocità della luce. In questo contesto il fattore reputazione va trattato come una priorità assoluta. Per i brand commerciali, se c'è solidità in questo senso può significare la differenza tra il successo di mercato e l'oblio.
Nel contesto geopolitico, la reputazione di un paese può influenzare aspetti determinanti: gli investimenti esteri, la diplomazia, le relazioni internazionali, il percepito degli individui. In entrambi i casi, è un fattore intimamente legato alla comunicazione: come un messaggio viene presentato, interpretato e condiviso può fare o disfare la reputazione di un'organizzazione.
Dando per scontato il ruolo centrale del contenuto, in questo articolo esplorerò l'importanza cruciale della reputazione nel mondo moderno, provando ad evidenziare come una comunicazione efficace sia fondamentale per costruire e mantenere questo bene apparentemente immateriale ma concreto e inestimabile.
Infatti, nella realtà pratica incide profondamente sulle dinamiche socio-economiche. Prendiamo, ad esempio, il caso delle imprese. Una reputazione forte è un motore che attira i talenti, alimenta la fiducia del cliente, agevola la differenziazione dal mercato, consente margini più elevati e di posizionarsi presso gli stakeholders con forza. Inoltre, consente all’organizzazione di gestire eventuali crisi di mercato facilitando l’accettazione da parte dei portatori di interesse (clienti, fornitori, dipendenti etc) delle azioni necessarie ad invertire la rotta e di gestire con maggiore efficace l’eventuale issue management.

Analogamente, la reputazione di un paese può avere un impatto diretto sul suo capitale, umano, sociale e economico. Può attrarre investimenti esteri, aumentare il valore del turismo e persino influenzare le relazioni diplomatiche, favorire lo scambio intellettuale e l’accesso ai talenti. Al contrario, se è negativa, può dissuadere investimenti, diminuire il valore del marchio nazionale e complicare le relazioni con altre nazioni, nonché favorire “la fuga dei cervelli”.
Inoltre, la reputazione non è qualcosa che può essere modificata da un giorno all'altro ma da un giorno all’altro può essere distrutta. Essa è il risultato di anni di decisioni, interazione e comunicazioni che si accumulano per creare un'immagine pubblica. È un puzzle complesso con un rischio “effetto domino” elevatissimo
La comunicazione in questo ha un ruolo fondamentale. Data la valutazione del contenuto della cui costruzione il comunicatore deve essere parte attiva e non meramente ricettiva/operativa, la definizione di un messaggio chiaro, rilevante e coerente è vitale. Quando un'organizzazione o un paese emette comunicati che sono ben articolati e allineati con i loro obiettivi e valori fondamentali, essi costruiscono un'immagine di affidabilità e competenza. Questa coerenza rassicura gli stakeholder, fornendo una base solida su cui costruire una relazione di fiducia. È la fiducia che, in ultima analisi, costituisce la spina dorsale della reputazione.
D'altro canto, la comunicazione può anche essere una spada a doppio taglio. Messaggi confusi, informazioni errate o dichiarazioni contraddittorie possono erodere rapidamente la fiducia e, di conseguenza, danneggiare la reputazione. In un'epoca in cui i social media possono amplificare sia i successi che gli errori, la mancanza di coerenza nella comunicazione può avere effetti estremamente negativi.
Voglio portare alla vostra attenzione due casi concreti di costruzione di una reputazione vincente: il Canada e la Svezia.
Il Canada è spesso raccontato come uno dei paesi migliori, noto per la sua qualità della vita, la sua politica di inclusione e la sua leadership in materia di diritti umani. Questa percezione attrae non solo turismo ma anche investimenti stranieri e capitale umano. Inoltre, la reputazione del Canada come paese "amico" e "affidabile" gli consente di avere un impatto diplomatico più che proporzionale rispetto alla sua dimensione o potenza militare. Il "marchio Canada" è così forte che si riflette positivamente anche sulle aziende e sui prodotti canadesi, che vengono vissuti come affidabili e di alta qualità.
La Svezia, d'altra parte, gode di una reputazione simile ma per ragioni leggermente diverse. È nota per il suo modello di welfare sociale, l'attenzione all'ambiente e la trasparenza governativa. Questo le permette di esercitare un'influenza a livello globale, spesso fungendo da esempio in discussioni su sostenibilità, diritti umani e democrazia. La Svezia è anche la patria di alcune delle aziende più rispettate al mondo che beneficiano enormemente della considerazione positiva del paese per quanto riguarda la qualità e l'innovazione.
In entrambi i casi, il percorso di reputazione è stato costruito attraverso una comunicazione efficace, rilevante e coerente.
In un mondo sempre più interconnesso e competitivo, questa variabile è un fattore distintivo che può fare la differenza.
Happy reputation!



