È ammirevole il coraggio delle donne iraniane che stanno sfidando la teocrazia che domina il loro paese. Il regime dell’Ayatollah teme l’emancipazione femminile come uno dei pericoli più concreti contro il potere. Stessa cosa accade nell’Afghanistan dove i talebani, appena ritornati alla guida, hanno prioritizzato la lotta all’istruzione delle donne. Ma perché tanto accanimento? È evidente che ad una maggiore partecipazione delle donne alla vita culturale e produttiva dei paesi corrisponde maggiore benessere e democrazia. Non è un caso che le prime posizioni nell’Indice di Sviluppo Umano delle Nazioni Unite (UNDP), un rapporto che monitora annualmente la qualità della vita, sono stabilmente assegnate a paesi che hanno un tasso di occupazione femminile alto.
L’occidente è un faro per i diritti civili e il contrasto alle differenze di genere rappresenta una priorità nell’agenda di tutti i leader. Ciò accede anche in Italia, che sconta un forte ritardo con un tasso di occupazione femminile di circa 50% a fronte di una media UE di oltre 60% e con picchi superiori a 70% in Norvegia.
Credo che le radici di questo ritardo siano prima di tutto culturali. In Italia le donne sono 31,4 milioni di persone, gli uomini invece 29,6 milioni. Ebbene quante donne completano il ciclo di studi fino alla laurea? Circa 220 mila. Gli uomini sono invece solo 187 mila. La logica vorrebbe quindi che il mercato del lavoro di un Paese sviluppato il genere che rappresenta più laureati veda la maggiore rappresentazione. Invece, viceversa, il tasso di occupazione femminile è, come detto sopra del 50% mentre quello degli uomini del 62.5%.
Cosa genera questa distruzione di valore se non un bug nel processo culturale di indirizzo e valorizzazione del talento femminile?
È un punto che il PNRR sembra avere colto. Il progetto prevede una serie di azioni che affrontano alla base il problema. Sono previsti importanti investimenti per la realizzazione di asili nido, l’evasione scolastica, l’orientamento allo studio, l’introduzione di nuove metodologie di studio, nuove politiche di equilibrio vita privata e lavoro, formazione ad hoc, politiche di inserimento.
Nella speranza che il PNRR nella sua fase di delivery non tradisca gli impegni è necessario che il settore privato continui nell’investire nella chiusura del gender gap.
Non mancano progetti di grande portata come quelli promossi dalla Fondazione Valore D oppure il programma di Diversità e Inclusione della mia Accenture.
Bisogna quindi riuscire ad accendere una sinergia in grado di portare gli esempi di eccellenza in una fase che possa generare grandi numeri.
Guardando all’estero, sempre a proposito di impegno collettivo,
Un caso interessante è quello di GrubHub che dimostra come le aziende possano utilizzare le loro risorse per supportare le donne e ridurre il divario di genere. Il progetto RestaurantHER, lanciato in occasione del Mese della Storia delle Donne, ha creato una mappa digitale per evidenziare i ristoranti gestiti da donne, con l’obiettivo di aumentare il business per le proprietarie femminili e di affrontare il divario di genere nell’industria alimentare. Grazie a questa iniziativa, le donne proprietarie di ristoranti hanno ricevuto un maggiore sostegno e visibilità, incoraggiando altre donne a intraprendere carriere in questo settore.
Tuttavia, il caso di GrubHub evidenzia anche la necessità di affrontare il divario di genere nell’industria alimentare e in altri settori. Secondo Grubhub, solo il 20% dei cuochi sono donne, un dato che mette in luce l’importanza di promuovere l’uguaglianza di genere anche in settori tradizionalmente considerati maschili. Inoltre, il progetto RestaurantHER dimostra come le aziende possano collaborare con organizzazioni di donne per promuovere la parità di genere e l’accesso alle opportunità.
La parità di genere è senz’altro un impegno da perseguire senza se e senza ma e bisogna realizzare che nell’affrontare questo determinante diritto stiamo percorrendo una delle maggiori leve di crescita per il Paese. Infatti, secondo una stima dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), se l’Italia aumentasse il tasso di occupazione delle donne dal 50% al 60%, potrebbe generare un aumento del PIL di circa l’1,2% nel medio termine (circa 10 anni) e di circa il 2,3% nel lungo termine (circa 20 anni).
Innovare fa bene e conviene.
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