Sovranità dell’IA: perché l’Italia è tornata protagonista dell’innovazione

Sovranità dell’IA: perché l’Italia è tornata protagonista dell’innovazione

È arrivato il momento di spingere nel post-digitale le eccellenze italiane. Non solo quelle che tutti conosciamo, legate alla creatività o al design. Oggi il Made in Italy dell’innovazione esiste, cresce, si consolida. Ed è uno dei segnali più interessanti del riscatto europeo sul fronte tecnologico. Lo dimostra un recente studio di Accenture dedicato alla sovranità dell’intelligenza artificiale: un tema che sembra tecnico, ma che in realtà riguarda da vicino la competitività delle nostre imprese, la reputazione del Paese e la capacità dell’Europa di ritrovare una sua voce nella reinvenzione tecnologica.

Da mesi utilizziamo l’IA nei modi più diversi. Ma la velocità con cui queste tecnologie entrano nei processi aziendali porta con sé una domanda nuova, quasi culturale: dove risiedono i nostri dati? Chi li gestisce? Quanto siamo dipendenti da tecnologie nate lontano da noi?

Sovranità IA, equilibrio tra innovazione e identità digitale

La cosiddetta “sovranità dell’IA” nasce proprio qui: non come desiderio di chiusura, ma come volontà di responsabilità. È il tentativo di riportare equilibrio tra la spinta all’innovazione e il bisogno di proteggere l’identità digitale di aziende e Paesi.

In questo nuovo scenario, l’Italia sta giocando una partita importante. E lo sta facendo con una maturità che, questa volta, non sorprende: deriva da anni di trasformazioni silenziose, investimenti consistenti, competenze cresciute dentro e fuori le organizzazioni.

Sovranità dell’IA: perché l’Italia è tornata protagonista dell’innovazione
Sovranità dell’IA: perché l’Italia è tornata protagonista dell’innovazione

Lo studio di Accenture sulla sovranità IA

Secondo i dati Accenture, il 71% delle imprese italiane aumenterà gli investimenti in soluzioni di Intelligenza Artificiale “sovrana” nei prossimi due anni. Un dato che posiziona l’Italia ai vertici europei, quasi alla pari con la Germania. Perché succede?

Le organizzazioni italiane hanno capito che il valore sta nei dati. E che governarli significa proteggere relazioni, prodotti, reputazione. L’IA viene vista come un abilitatore di competitività, non come un esperimento. Il passaggio dalla curiosità alla strategia è stato rapido. La consapevolezza del rischio è aumentata.

L'Italia è pronta a fare innovazione con la IA

Questi elementi spiegano perché, oggi, l’Italia appare così pronta: non è un caso isolato, ma l’esito di un’evoluzione che non raccontiamo abbastanza.

Negli ultimi anni abbiamo interiorizzato l’idea dell’Italia “fanalino di coda” nell’innovazione. Eppure, i numeri stanno mostrando il contrario: nelle tecnologie più strategiche, dal cloud all’IA, il tessuto produttivo italiano si sta muovendo con pragmatismo e velocità.

La ricerca sulla sovranità dell’IA mette in luce proprio questo: un’Italia che non rincorre, ma che partecipa con successo alla transizione digitale europea.

Un paese nuovamente competitivo

Il tema non è solo tecnologico. È narrativo, culturale, identitario. Raccontare un’Italia che torna a competere significa restituire fiducia a un ecosistema industriale che ha ritrovato ambizione e che oggi vuole essere protagonista in un’Europa che deve cambiare e accelerare.

Saper raccontare questo nuovo scenario è essenziale per differenziarsi, attrarre investitori, dialogare con partner e istituzioni. La IA Sovrana diventa una storia di strategia, non di compliance.

La sovranità IA e la sfida ai big tech

La sovranità dell’IA non è la fine dell’apertura, né una sfida ai big della tecnologia. È la scelta - moderna, matura - di innovare in modo consapevole. Per l’Italia è un’occasione preziosa: riposizionarsi, raccontarsi meglio, mostrare la forza delle proprie competenze e delle proprie imprese.

E forse, dopo anni di complessità e di narrazioni al ribasso, è proprio questa la storia che vale la pena raccontare di più: un Paese che ha voglia di tornare protagonista.


Perché le aziende devono diventare editori del proprio futuro

Perché le aziende devono diventare editori del proprio futuro

Viviamo in un tempo in cui i dati hanno assunto un ruolo centrale nelle strategie aziendali. Ogni organizzazione oggi misura, analizza, monitora: tassi di conversione, performance operative, soddisfazione del cliente, impatto ambientale. Tuttavia, ogni volta che incontro imprenditori o manager, mi accorgo che c’è ancora una distanza enorme tra il possedere i dati e il saperli raccontare. La verità è che i numeri, da soli, non bastano. Se non diventano parte di una narrazione, rischiano di restare muti. Ecco perché credo che le aziende, oggi più che mai, debbano imparare a essere editori del proprio futuro.

Dare voce al proprio percorso

Essere “editori” non significa costruire un’immagine artificiale di sé. Significa imparare dall'editoria la capacità di dare voce al proprio percorso, costruendo un racconto coerente che unisca fatti, emozioni e visione. I dati sono fondamentali perché rappresentano la sostanza, il reale, la prova. Ma la narrazione è ciò che dà senso a quei numeri, ciò che li collega alle persone, ai valori, alla direzione che l’organizzazione intende seguire. È come avere due linguaggi che, se usati insieme, generano significato: il linguaggio dell’evidenza e quello della visione.

Questo approccio genera un cambiamento culturale profondo. Significa passare da una comunicazione episodica a una comunicazione continua, in cui ogni innovazione, ogni progetto, ogni traguardo entra a far parte di una storia collettiva. E questa storia non va scritta solo dai vertici, ma da tutta l’organizzazione. I dipendenti, i collaboratori, i partner sono i primi narratori credibili del cambiamento. La loro voce rende il racconto autentico, umano, vicino alla realtà quotidiana.

Perché le aziende devono diventare editori del proprio futuro
Perché le aziende devono diventare editori del proprio futuro

Diventare editori del proprio futuro

Diventare editori del proprio futuro, quindi, non è un esercizio di stile. È un atto di responsabilità e di visione. Significa guardarsi dentro, riconoscere ciò che si è, ma anche avere il coraggio di immaginare ciò che si vuole diventare. In un mondo dove tutto comunica e dove la reputazione è costruita giorno per giorno, la vera innovazione sta nella capacità di unire l’analisi e l’emozione, la misura e il sogno.
Per molto tempo si è pensato che pubblicare report, trend e previsioni fosse sufficiente per costruire autorevolezza. Ma i numeri, da soli, non bastano.
È emersa con forza un’idea diversa: per incidere davvero nel dibattito su tecnologia e trasformazione, serve costruire una vera e propria “editoria d’impresa”. Un sistema narrativo continuo che non si limita a diffondere dati, ma li collega a volti, esperienze, storie. In questo modello, i report smettono di essere oggetti chiusi e diventano contenuti vivi.

La forza dei dati

Le analisi non servono più a impressionare, ma a orientare. La tecnologia non è più raccontata come astrazione, ma come esperienza reale e trasformativa. La forza del dato non sta nel dato in sé, ma nella visione che consente di costruire.
Ogni azienda ha una storia che merita di essere raccontata. Ma serve metodo, coerenza, la volontà di aprirsi. Come ogni buon editore, bisogna scegliere le parole giuste, i tempi giusti, i canali giusti. E poi bisogna saper ascoltare i propri lettori - clienti, dipendenti, comunità - perché anche loro contribuiscono a scrivere le pagine di quel racconto.

Io credo che il futuro della comunicazione d'impresa passi proprio da qui: dalla capacità di includere dati, racconti e visioni in un’unica trama.

Tecnologia e inverno demografico: verso sistemi intelligenti

Tecnologia e inverno demografico: verso sistemi intelligenti

L'inverno demografico non si combatte con bonus, ma con sistemi più intelligenti, più giusti e ben comunicati. A partire da come li immaginiamo.

L'Italia scivola sotto 1,18 figli per donna. Un dato che, come spesso accade, è stato trattato come una notizia. Ma non è una notizia. È un nuovo assetto strutturale. Un "nuovo normale" da cui non si torna indietro con un decreto o una campagna pubblicitaria.

Il tema non è più incentivare qualcosa che manca, ma ricostruire i presupposti per fare funzionare la società post digitale. E questo presuppone un nuovo clima di fiducia alimentato da sistemi diversi, servizi equi, organizzazioni pubbliche e private capaci di funzionare anche con meno persone.

La Tecnologia come aiuto concreto

E qui entra in gioco la tecnologia. Ma non come fine, né come panacea. La tecnologia può aiutare? Sì. Ma solo se smettiamo di pensarla come "soluzione".

Troppo spesso il digitale viene evocato come rimedio. Un'app per prenotare un nido, una dashboard per incrociare i dati Istat, un assistente virtuale per le mamme. Bene, anzi benissimo. Ma se il sistema sottostante resta quello del passato, la tecnologia diventa un’interfaccia moderna su una macchina inceppata.

La verità è che la tecnologia può aiutare solo se è parte di una nuova progettazione, che tenga conto del nuovo contesto. Non è difficile prevedere che il paese vincente del prossimo futuro sarà quello che saprà creare un nuovo modello basato su un mondo pubblico meno complicato e servizi personalizzati per chi lavora, studia, cresce figli o cura genitori.

Tecnologia e inverno demografico: verso sistemi intelligenti
Tecnologia e inverno demografico: verso sistemi intelligenti

Re-ingegnerizzare il modello

La sfida non è digitalizzare lo status quo, ma re-ingegnerizzare il modello di riferimento delle persone nel rapporto con lo Stato, il lavoro, la salute, la scuola. C'è un anello mancante in tutta questa catena, e si chiama comunicazione.

Se la tecnologia non viene raccontata bene, non viene capita. Se non viene capita, non viene usata. E se non viene usata, fallisce.

In un Paese che invecchia, dove ogni cittadino “perso” pesa di più sul sistema, la comunicazione non è accessoria. È infrastrutturale perché serve per ridurre l'attrito tra persone e servizi; generare fiducia, non solo consenso; trasformare strumenti in diritti vissuti; orientare comportamenti complessi, come il lavoro di cura o la pianificazione familiare.

Servono nuove regole

Ma servono parole nuove che orientano, accompagnano, abilitano. Non possiamo costruire il futuro su un presupposto che non c'è più. L'Italia non tornerà a 2,1 figli per donna, il paradigma che ha portato l’Italia tra i paesi più industrializzati del mondo fa parte del passato.

Il punto, allora, non è rincorrere un modello perduto, ma progettare sistemi adattivi, intelligenti, giusti. Che funzionino per una popolazione che cambia.

La tecnologia ci offre gli strumenti. Ma sta a noi disegnarne il senso. E comunicarlo, in modo tale che sia riconosciuto, desiderato, condiviso.

Non basta innovare. Serve anche sapere per chi stiamo innovando. E, ancora prima, saperlo dire.


Quando l’Intelligenza Artificiale diventa misurabile aumenta la credibilità

Quando l’Intelligenza Artificiale diventa misurabile aumenta la credibilità

C’è un momento nella vita di chi comunica l’innovazione, in cui l’entusiasmo rischia di somigliare alla fede. E allora può capitare di passare, nel giro di una riflessione, da San Francesco a Jeff Bezos. Il primo predicava la povertà e la verità del gesto, il secondo misura tutto: tempi, risultati, ritorni. Due estremi che raccontano bene la condizione in cui si trova oggi chi deve parlare di Intelligenza Artificiale – tra la tensione etica della trasformazione e la necessità, molto terrena, di dare conto dell’impatto sul business.

Negli ultimi mesi, l’AI è diventata la calamita di ogni discorso sull’innovazione. Attira investimenti, talento, narrativa. È una “bolla buona”, come ha detto Bezos: un ecosistema gonfio di aspettative, che può però produrre effetti positivi se impariamo a trasformarlo in impatto buono. Ma per farlo serve un cambio di prospettiva.

Serve raccontare cosa può fare l'IA

Non basta raccontare cosa può fare l’AI; serve mostrare cosa fa davvero, in che misura, e con quali benefici tangibili. Per chi si occupa di comunicazione, il punto è costruire fiducia – all’interno delle organizzazioni e all’esterno, verso clienti e stakeholder.

Significa collegare ogni progetto IA a metriche che contano davvero: efficienza, qualità, sostenibilità, valore per le persone. Dichiarare da dove partiamo, cosa intendiamo migliorare e in che orizzonte temporale.

È un approccio più sobrio, ma anche più credibile. Richiede dati raccolti in modo coerente, baseline affidabili, verifiche indipendenti e contestualizzazione dei risultati.

In altre parole, i progetti devono nascere misurabili by design.

Quando l’Intelligenza Artificiale diventa misurabile aumenta la credibilità
Quando l’Intelligenza Artificiale diventa misurabile aumenta la credibilità

La Fiducia come valuta dell'IA

La fiducia è la valuta che regge la comunicazione dell’IA. Custodirla significa raccontare anche come vengono gestiti i dati, quale ruolo mantiene il controllo umano e quanto spesso vengono aggiornate le evidenze. Non serve la perfezione, serve trasparenza. Promesse misurate, evidenze progressive, aggiornamenti chiari: è così che la “bolla buona” diventa impatto buono.

Forse non è un caso che chi si occupa di innovazione viva spesso in bilico tra idealismo e pragmatismo. Il primo ci ricorda il valore della coerenza e della misura; l’altro, l’importanza della scalabilità e della prova empirica.

Nel mezzo, c’è la sfida quotidiana di chi comunica: dare voce al progresso senza perdere il contatto con il reale. Trasformare la bolla in impatto “buono” non è un atto di fede. È un esercizio di metodo, rigore e umiltà.

Happy Innovation!


Formarsi sempre: la cultura del continuous learning

Formarsi sempre: la cultura del continuous learning

Siamo sempre stati abituati a pensare alla formazione come a uno strumento per aggiornarsi, per restare al passo con le novità del proprio mestiere. Ma oggi non si tratta più di aggiornamento occasionale o di episodi isolati: serve una vera e propria politica di apprendimento personale, un percorso continuo che accompagni ciascuno di noi lungo tutta la vita professionale. È questo, in sintesi, il significato profondo del continuous learning.

Non parliamo solo di competenze tecniche o digitali, ma di un atteggiamento mentale. La rapidità con cui cambiano tecnologie, mercati e linguaggi ci impone di superare l’idea di una formazione “a blocchi”, fatta di cicli e certificati. La conoscenza diventa un flusso, non un archivio. E chi non entra in questo flusso rischia di restare ai margini di un mondo che non aspetta.

Il concetto del continuous learning

Il continuous learning non è un concetto nuovo, ma oggi assume un significato diverso. Significa accettare che la formazione non è un momento separato dalla vita, bensì una sua dimensione costante. Implica una mentalità aperta, curiosa, capace di aggiornarsi in modo naturale e continuo. In questo senso, la scienza del cervello ci offre una conferma interessante: diversi studi mostrano che il cervello consolida meglio ciò che apprende attraverso stimoli brevi ma regolari, piuttosto che in sforzi concentrati e intensi. L’apprendimento continuo, quindi, non è solo un principio educativo: è coerente con il modo in cui la mente umana funziona davvero.

Serve un cambio di paradigma

Ma per arrivare a una cultura dell’apprendimento costante serve un cambio di paradigma. Non possiamo chiedere a persone cresciute in un sistema che separa il tempo dello studio da quello del lavoro di pensare che “si impara per sempre”. È un modello che si costruisce sin da piccoli, a partire dalla scuola. E qui emerge una grande contraddizione: parliamo di lifelong learning mentre difendiamo ancora l’idea di tre mesi di vacanze estive. Un retaggio di un’altra epoca, quando la pausa serviva ad aiutare nei campi e la vita seguiva i ritmi dell’agricoltura.

Oggi, in un Paese che affronta un inverno demografico e che fatica a mantenere alta la propria produttività, tre mesi di stop rappresentano un lusso che amplifica le disuguaglianze. Chi può permettersi esperienze formative, viaggi o laboratori estivi ne trae vantaggio; chi non può, resta indietro. Il divario cognitivo nasce anche da qui, da un tempo che non è distribuito in modo equo.

Formarsi sempre: la cultura del continuous learning
Formarsi sempre: la cultura del continuous learning

Continuous learning, continuità e curiosità

Il continuous learning richiede invece continuità, curiosità, esercizio mentale. Non è un obbligo imposto dalle aziende o dalle tecnologie, ma un diritto-dovere che ciascuno deve riconoscere per sé. È la consapevolezza che il valore professionale non è più statico, ma si rinnova costantemente.

Serve un sistema educativo che prepari al cambiamento e non solo alla memorizzazione; che insegni a interpretare l’incertezza, a muoversi dentro la complessità. E serve, allo stesso tempo, un ecosistema sociale che consideri la formazione permanente non come un costo, ma come un investimento collettivo.

La capacità di imparare sempre

Non basta parlare di upskilling o reskilling se non accompagniamo questi termini a una riforma del pensiero. La cultura del continuous learning non si misura in ore di corso o attestati, ma nella capacità di imparare, disimparare e reimparare.

Solo cambiando questo paradigma – a partire dalla scuola, passando per le imprese, fino alla sfera personale – potremo affrontare davvero la sfida di un mondo in trasformazione. Perché la vera innovazione non è la tecnologia: è la mente che resta aperta, curiosa e in cammino.

Happy Learning!


One Team: ripensare il lavoro come ecosistema integrato

One Team: ripensare il lavoro come ecosistema integrato

In un’epoca in cui i modelli organizzativi devono reinventarsi alla ricerca del postulato che definirà l’epoca post-digitale, la mia esperienza mi ha portato a preferire un approccio che chiamo “One Team”, in cui la ricerca della soluzione più efficace è ricercata attraverso l’utilizzo di un “cervello esteso”, fatto di tutte le competenze, esperienze e diversità dell’ecosistema esteso che ruotano intorno alla comunicazione, siano  risorse interne o esterne all’azienda. In questo contesto la “soluzione” nasca dalla co-creazione tra attori diversi che credono nella stessa missione del progetto.

One Team, cambiamento della Leadership

Questo richiede un cambiamento di postura perché il ruolo del leader non risiede solo nel coordinare, controllare, ottimizzare ma ancor di più connettere, ispirare, includere, sedimentare fiducia.

Il payoff del continuo reinventarsi per trovare la soluzione migliore è una macchina più intelligente, snella e reattiva.

I sistemi di intelligenza artificiale sono un alleato di questo percorso. Secondo uno studio sperimentale su 122 team aziendali, quelli supportati da intelligenza artificiale generativa hanno mostrato performance superiori del 15‑25 % rispetto a team tradizionali privi di IA integrata.

One Team: ripensare il lavoro come ecosistema integrato
One Team: ripensare il lavoro come ecosistema integrato

La IA come interlocutore strategico

Negli ultimi mesi, c’è stata un’accelerazione, l’IA non è più relegata a compito di creazione di contenuti e analisi, ma è diventata un interlocutore operativo e strategico all’interno dei team. Con l’arrivo degli Agentic, l’IA Generativa è alla base di un’orchestrazione di agenti digitali specializzati in grado di eseguire task ma anche di prendere decisioni, interagire con altri strumenti e confrontarsi con gli esseri umani che li governano.

Questo significa che l’IA è un attore attivo del modello One Team. Lavorare con gli agenti digitali comporta un’estensione della sfida: bisogna saper delegare, ascoltare e integrare anche ciò che viene da un’intelligenza non umana.

Il futuro del lavoro si sta delineando nella pratica quotidiana, per cogliere le opportunità insite nel cambiamento. La logica del One Team può creare vantaggio competitivo culturale, operativo, tecnologico.

Happy team!


La comunicazione che vale: quando i dati la riportano al centro

La comunicazione che vale: quando i dati la riportano al centro

Mi capita spesso di sentire dire che l’intelligenza artificiale sostituirà chi fa comunicazione. Ma la verità è più scomoda - e anche più interessante. L’AI sostituirà chi fa comunicazione solo se continuiamo a farla come l’abbiamo sempre fatta, appoggiandoci su modelli, KPI e metriche che appartengono a un altro tempo. Se accettiamo di restare lì, fermi, a raccontare senza leggere, a produrre contenuti senza capirne l’effetto, allora sì: verremo superati. E non sarà colpa della tecnologia.

Oggi, chi comunica ha in mano una leva potente. Ma solo se ha il coraggio di usarla in modo nuovo. La tecnologia non ci toglie spazio: ce lo restituisce. Ci offre la possibilità di essere davvero data-driven, non nel senso sterile del “misurare i risultati”, ma nel senso vivo del decidere con consapevolezza. Prima, durante, dopo. Ci permette di capire chi ascolta, cosa attiva attenzione, dove un messaggio genera fiducia, quando una parola diventa un comportamento.

La responsabilità delle scelte

In un mondo dove ogni funzione aziendale è chiamata a portare numeri, insight, ritorni misurabili, la comunicazione può scegliere se restare legata all’intuito e alla creatività non filtrata, oppure se trasformarsi in qualcosa di più: un sistema di intelligenza relazionale, capace di leggere segnali deboli, intercettare pattern, generare insight che pesano anche nei comitati dove si decide davvero.

Questo non vuol dire diventare analisti o data scientist. Vuol dire prendersi la responsabilità di scegliere cosa conta. Vuol dire guardare le metriche con spirito critico, sapere cosa va misurato e perché. Perché non tutte le visualizzazioni valgono uguale. Non tutti i contenuti generano valore. E non tutti gli impatti sono visibili a colpo d’occhio.

Penso spesso a cosa potrebbe fare oggi una funzione comunicazione con i dati giusti. Potrebbe individuare dove un messaggio viene frainteso e intervenire prima che la distorsione diventi crisi. Potrebbe leggere i trend interni che anticipano un calo di fiducia, o un’opportunità di crescita. Potrebbe collegare contenuti e comportamenti, e sapere - con dati alla mano - quali parole attivano un clic, una candidatura, un cambiamento.

La comunicazione che vale: quando i dati la riportano al centro
La comunicazione che vale: quando i dati la riportano al centro

Il contenuto e le priorità di business

Ma il punto non è più contare quanti post facciamo. È collegare ogni contenuto a una priorità di business. È poter dire: questa comunicazione ha accelerato l’adozione di un nuovo processo. Questa narrativa ha rafforzato la fiducia in un momento critico. Questo contenuto ha supportato un posizionamento chiave su un nuovo mercato. È lì che si misura il valore. Non nel “dopo”, ma nel “durante”.

Questa discussione non è nuova, è vero. Ma oggi, per la prima volta, abbiamo gli strumenti per rispondere alla domanda più importante: quale comunicazione genera, facilita o accelera una priorità strategica? I dati ci permettono di rispondere in modo oggettivo. Di trasformare la comunicazione da costo percepito a investimento tracciabile.

Bisogna costruire un sistema

Certo, non si tratta di like, reach o open rate. Non più. Si tratta di costruire un sistema che leghi contenuti a comportamenti, narrazione a fiducia, parole a decisioni. Un sistema capace di rispondere a domande nuove: questa comunicazione ha ridotto il tempo di adozione di un processo interno? Ha aiutato un cliente a capire meglio il nostro valore? Ha fatto crescere l’adesione a una trasformazione culturale?

In Accenture, ci stiamo muovendo proprio in questa direzione. Costruiamo la misurazione attorno a queste domande. Perché se non colleghi la comunicazione alle priorità del business, non stai comunicando davvero. Stai solo decorando la superficie.

Il coraggio di cambiare

E per farlo, serve anche qualcosa che non si misura: il coraggio. Il coraggio di cambiare approccio. Di uscire dalla comfort zone delle “belle parole”. Oggi, chi comunica non può limitarsi a scrivere bene o presentare con efficacia. Deve saper ascoltare i segnali, leggere i dati, interpretarli, usarli. Non per diventare tecnico. Ma per restare rilevante.

Una comunicazione capace di fare questo — di raccogliere dati, leggerli, parlare il linguaggio dell’azienda e generare impatto — non è un’utopia. È il prossimo standard. Ci arriveremo, ma solo se accettiamo una sfida culturale prima ancora che tecnologica. E se iniziamo a trattare la comunicazione per ciò che davvero è: una leva strategica. Non per raccontare cosa è successo. Ma per contribuire a farlo succedere.


Physical AI, quando l’intelligenza artificiale diventa concreta e misurabile

Physical AI, quando l’intelligenza artificiale diventa concreta e misurabile

Mentre si moltiplicano gli scenari teorici sull’IA, ci sono aziende che la stanno già applicando, nel mondo reale. E i risultati parlano chiaro. Come nel caso dello stabilimento Ariston di Albacina.

C’è un paradosso curioso nel nostro rapporto con l’intelligenza artificiale: ne parliamo tantissimo, e allo stesso tempo conosciamo pochissimo delle sue applicazioni reali. Non perché siano rare, ma perché spesso si preferisce discutere dei rischi futuri, dei dilemmi etici o delle ipotesi distopiche, piuttosto che mostrare dove e come l’IA sta già migliorando la vita delle persone e delle imprese.

La tecnologia abilita, funziona, crea valore. E succede anche in Italia. Un caso esemplare? Il progetto realizzato da Ariston Group e Accenture a Fabriano.

Ariston Group: quando l’IA entra in fabbrica (e migliora le cose)

Nel sito produttivo di Albacina, nelle Marche, Ariston ha digitalizzato la linea di produzione degli scaldacqua, integrando intelligenza artificiale, sensori e analisi dati in ogni fase del processo.

Il risultato è una fabbrica intelligente, dove:

  • l’AI aiuta a prevenire difetti, ottimizza i consumi e riduce gli sprechi;
  • gli operatori interagiscono con dashboard intuitive, migliorando reattività e precisione;
  • ogni dato raccolto contribuisce a migliorare la qualità del prodotto e l’efficienza dell’impianto.

Non si tratta di un test. Non è un proof of concept. È una trasformazione industriale già avvenuta, che rende la fabbrica più sostenibile, resiliente, competitiva.

Non perché ci sia un problema nella narrazione, ma perché spesso si sceglie di non raccontare queste storie. Il dibattito pubblico sull’AI è dominato da parole come “rischio”, “regole”, “etica”, “paura”. Temi sacrosanti, ma non esaustivi.

Physical AI, quando l’intelligenza artificiale diventa concreta e misurabile
Physical AI, quando l’intelligenza artificiale diventa concreta e misurabile

Divulgare la IA per migliorare il futuro

Mancano le storie che aiutano a vedere l’intelligenza artificiale per quello che è davvero oggi: una tecnologia abilitante, concreta, diffusa, che può migliorare settori chiave della nostra economia.

Divulgare casi come quello di Ariston vuol dire dare sostanza al futuro, mostrare che l’AI non è solo questione di chatbot o algoritmi astratti, ma di prodotti migliori, lavoro più sicuro, sostenibilità operativa.

Physical AI, cos'è e perché è utile

C’è un termine – Physical AI – che descrive perfettamente questa evoluzione: l’intelligenza artificiale che si integra con il mondo fisico, che sotto la supervisione umana prende decisioni in tempo reale su base dati, che interagisce con ambienti, infrastrutture, persone.

È l’IA nei robot industriali, nei sensori, nei veicoli, nei sistemi energetici. E in molti casi, non si vede, proprio perché è ben progettata: si integra nei processi e li potenzia.

Proprio per questo, raccontare questi progetti è fondamentale: non per convincere, ma per mostrare che è tutto già possibile. Già operativo. Già reale e toccare la potenzialità che abbiamo nelle nostre mani.


Giovani e futuro: perché non vanno “guidati”, ma seguiti

Giovani e futuro: perché non vanno “guidati”, ma seguiti

Ogni epoca ha avuto la sua critica ai giovani. Negli anni Sessanta erano accusati di essere ribelli senza causa, negli Ottanta di pensare solo all’edonismo, nei Duemila di essere choosy e viziati. Oggi, mentre i dati ci dicono che sei giovani su dieci sarebbero pronti a trasferirsi all’estero per costruire il proprio futuro, stiano ripetendo lo stesso copione: considerarli fragili, incerti, smarriti, bisognosi di essere “accompagnati”.

Una narrativa che si ripete

È la trappola di una narrativa che si ripete uguale a se stessa e che finisce per rendere invisibile ciò che in realtà i giovani sono: il più potente motore di trasformazione che un Paese possa avere.

I numeri raccolti da Ipsos sono chiari: negli ultimi tredici anni 550mila giovani hanno lasciato l’Italia, mentre solo 173mila sono rientrati.

Le ragioni principali non sono misteriose: opportunità lavorative (20%) e qualità della vita (16%). È un messaggio forte, che non può essere letto solo come una fuga, ma come un indicatore del gap tra ciò che i giovani cercano e ciò che il Paese offre. E qui la comunicazione gioca un ruolo decisivo: perché prima ancora che nelle statistiche, la distanza si misura nel racconto che una società sa fare di se stessa.

Da paternalismo a protagonismo dei giovani

In Italia abbiamo coltivato per decenni la narrazione del giovane da sostenere, da trattenere, da proteggere. Una narrativa paternalista che li colloca in uno spazio passivo, come se la direzione del cambiamento fosse già tracciata da altri e loro dovessero soltanto “adeguarsi”. Ma la verità è un’altra: non sono i giovani a dover essere accompagnati, sono loro ad accompagnarci. Sono loro che, con le scelte di studio, di lavoro, di migrazione o di permanenza, spostano il baricentro delle economie e delle culture. Sono loro che connettono mondi diversi, che aprono varchi, che inventano linguaggi. Loro che ogni giorno votano con i piedi, scegliendo dove vivere, lavorare, creare relazioni.

Giovani e futuro: perché non vanno “guidati”, ma seguiti
Giovani e futuro: perché non vanno “guidati”, ma seguiti

Il bivio narrativo

Imprese, istituzioni e territori hanno davanti un bivio narrativo: continuare a raccontare i giovani come “da trattenere”, oppure iniziare a rappresentarli come il vero acceleratore del cambiamento. Perché se sei su dieci sono pronti a partire, non è solo un problema da tamponare: è una chiamata collettiva a immaginare un Paese più attrattivo, in cui la mobilità non sia sinonimo di perdita, ma di circolazione di energie e competenze. E qui il linguaggio conta: dire “ci lasciano” è molto diverso dal dire “ci portano altrove”.

Ribaltare la prospettiva

Cambiare la rotta significa ribaltare la prospettiva. Non più giovani “oggetto” di politiche, ma soggetti che trainano strategie, visioni e persino valori. Se guardiamo con attenzione, già lo fanno: basti pensare al ruolo che hanno avuto nel diffondere nuove sensibilità ambientali, nel ridisegnare le regole del lavoro flessibile, nell’aprire l’Italia a una cultura digitale che altrimenti sarebbe rimasta più lenta. Non è un caso che molte start-up nascano da ragazzi che hanno avuto il coraggio di cercare opportunità fuori dai confini e poi di riportare esperienze, reti e idee.

I giovani come promotori di crescita

Per questo serve una nuova narrativa nazionale: smettere di certificare i giovani come “risorsa da salvare” e iniziare a riconoscerli come promotori di crescita. La comunicazione pubblica e quella d’impresa possono fare molto, non limitandosi a descrivere il fenomeno, ma contribuendo a ridefinire le cornici con cui lo leggiamo. Ogni volta che un ragazzo e una ragazza decide di studiare o lavorare all’estero, non stiamo perdendo dei cittadini: stiamo ampliando il perimetro della nostra comunità. Ogni volta che un giovane fonda una start-up a Berlino o accetta un contratto a Londra, non è una sottrazione, ma un investimento a ritorno differito: perché la rete di esperienze, conoscenze e relazioni che costruiscono, prima o poi, torna a ridisegnare anche la società d’origine.

Il futuro dell’Italia non si gioca quindi solo nella capacità di trattenere, ma nella capacità di accogliere, collegare e rilanciare. Se riusciremo a comunicare questo cambio di paradigma – che non sono i giovani a dover essere “guidati”, ma noi a doverci lasciare guidare da loro – allora avremo fatto un passo decisivo. Perché il Paese diventa attrattivo non quando convince i suoi figli a rimanere, ma quando riesce a diventare una casa da cui si può partire e a cui si vuole sempre tornare.

Happy growth!

Armando Barone

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